giovedì 31 dicembre 2009

Ping pong di Capodanno

Alla fine non siamo partiti. Non era il caso, non ce l’avrei mai fatta a lasciare due vecchi da soli, uno in ospedale a fare i conti con la vita che ti si rivolta contro da un giorno all’altro e l’altra in una casa che le fa da prigione da tanti, troppi anni, a passare le giornate in un modo fin troppo triste anche solo per poterne parlare. Probabilmente per me avrebbe significato respirare, e non solo l’aria pura della montagna; riappropriarmi di ritmi e minuti che qui nell’ultimo mese non so neppure dove siano spariti, tanto che a volte mi chiedo se ci sia qualcuno che gira le lancette dell’orologio a mia insaputa o se magari sto partecipando ad una specie di decathlon senza essermi mai iscritta. Ma il mio cuore non l’avrebbe sopportato. E così, a pochi giorni dal Natale non si può fare altro che seguire il proprio cuore, annullare la vacanza ed immergersi nell’incubo che mi perseguita da tutta la vita. Testa alta e lancia in resta, per sconfiggere il nemico bisogna combatterlo. Battaglia che dura da giorni, ormai, e per adesso non vi sono né tregue né bandiere bianche all’orizzonte. Chissà quando mai vi saranno. Giorni passati correndo da un panettone ad un’assistente sociale, da una Messa di mezzanotte a una corsia d’ospedale, da una coda alle Poste ad una all’anagrafe, rincorrendo medici, scartando regali, compilando domande e richiedendo certificazioni. Impossibile leggere anche solo la pagina di un libro, accendere il computer o scrivere un sms di auguri ma mi accorgo che in fondo non importa poi tanto. Si va per priorità, e in giorni così diventa priorità anche trattenersi cinque minuti in più in ospedale per imboccare mio padre. Moderna Don Chisciotte in gonnella combatto contro i mulini a vento della burocrazia italiana, rimbalzando come una pallina da un ufficio all’altro a buttar via mattinate come sabbia al vento. La pulcina ascolta in silenzio le mie lamentele su questo Paese, sugli uffici pubblici, sulle competenze. Riflette e propone la soluzione. Mamma, perché non metti tutti i documenti in una busta e li spedisci in Germania? la guardo basita. In Germania?!? penso ad uno scherzo ma lei è serissima. Ma certo, loro sono precisi mamma, ti preparano tutti i fogli in un giorno e ti rispediscono tutto indietro velocemente, così tu li puoi usare subito. La logica dei bambini, meravigliosa, ineccepibile. Lo dico sempre io che se governassero loro basterebbe un solo giorno per far rigare dritto tutto il mondo. Purtroppo la Germania ancora non ci fa da passacarte e la dura realtà nostrana continua a farmi rimbalzare. Da Natale a Capodanno, corro e rimbalzo, rimbalzo e corro. Speriamo nell’anno nuovo. Anche se continueremo a correre e rimbalzare, che perlomeno lo si possa fare in un mondo migliore.

martedì 22 dicembre 2009

Delirium tremens

Ho un magone terribile, un’arancia piazzata a metà della gola che non si sposta di un millimetro. Non va né su né giù. O magari è una melagrana, che in questi giorni fa anche più chic, visto che su blog e riviste è tutto un tripudio di risotti e bavaresi con chicchi di melagrana. Dev’essere il trend culinario del momento. Comunque, nel mio caso, arancia o melagrana che sia, il suo ruolo lo svolge benissimo. Sta lì bella piazzata in posizione strategica e in certi momenti fa intervenire anche i rinforzi, lacrime pungenti come spilli che sgomitano per riuscire ad affiorare nei miei occhi. E ogni tanto ci riescono. Come oggi pomeriggio quando sono andata in ospedale a trovare mio padre e son crollata come una scema in mezzo al parcheggio o come quando due giorni fa ho saputo che quelle nuvole minacciose sul fronte professionale di mio marito si stanno definitivamente trasformando in una tempesta. Ma sì, proprio quello che ci vuole a pochi giorni dal Natale, che già di per se è un periodo che mi risveglia sempre tristezze e malinconie, figuriamoci adesso. Mi immergo nel delirio assoluto di questi giorni e faccio le ore piccole confezionando pacchetti tra carte e nastrini che non ne vogliono sapere di arricciolarsi o imprecando in mezzo ad altre decine di persone inviperite che aspettano invano un bus da tre quarti d’ora, cosa per la quale non si può neppure dare la colpa alla neve perché colei, così coreografica e sorprendente, così come è arrivata se n’è anche già andata. Combatto da giorni dentro di me per capire se sia il caso o meno di partire lo stesso qualche giorno per le nostre sospirate vacanze, e mi accorgo che in ogni caso la voglia mi è comunque già passata. Mi sento sopraffatta dagli eventi e vorrei potermi raggomitolare sul divano e restar lì, a guardare il pettirosso fuori dalla finestra e non far niente. Soprattutto non pensare a niente. Melagrana permettendo.

giovedì 17 dicembre 2009

Benvenuto

Appena ti ho visto ho sorriso. Benvenuto, ho sussurrato. Ti ho accarezzato piano, intirizzito tu, intirizzita io, ma nonostante il gelo che ci circondava ho avvertito lo stesso un calore quando ti ho toccato. Un amore immediato. Un nuovo arrivo in famiglia va sempre festeggiato, declamato al mondo intero. Avrei voluto addirittura attaccare il fiocco sul portone, perché no, verde magari. Un tripudio di nastri, fiocchi e tulle in tutte le tonalità del verde, dal verde bottiglia al verde pisello al verde prato. Sai che follia, i condomini avrebbero pensato che siamo definitivamente usciti di senno. O che magari siamo diventati improvvisamente leghisti. Così, onde salvaguardare la decenza e le ideologie, mi sono limitata ad abbracciarti e a darti il benvenuto nel nostro giardino, in quella stessa aiuola di sassi di fiume e cotto toscano dove fino a poco tempo fa ha abitato il tuo predecessore. Ti troverai bene. Farai amicizia con Robi e la sua compagna Wanda, la coppia di merli che ogni anno torna qui a fare il nido, basterà che i tuoi rami si riempiano di foglie e vedrai come saranno felici di abitarti. Dovrai stare attento a Bumbo, il gatto dei vicini che, ci scommetto quello che vuoi, appena avrà adocchiato la novità vorrà provare subito a scalarti. Poi c'è il pettirosso, quello sì che ha un bel caratterino, vedrai, ma saprà rivelarsi anche un grande amico. La picci ti terrà d'occhio per scorgere le prime minuscole gemme dopo che il freddo sarà passato e riderà felice alla prima bianca nevicata dei tuoi petali. E appena sarai pronto a donarci qualche albicocca, sentirai che profumino uscirà dalla mia cucina. Sarai felice con noi, te lo prometto.

martedì 15 dicembre 2009

La vie en rose

L’ispirazione mi è venuta alcuni giorni fa durante un pranzo con alcuni colleghi. Ristorante semplice ma carino, piatti curati e ben fatti, del resto l’ha scelto di recente anche una maga dei fornelli che adoro per presentarci il suo libro di ricette. Soprattutto piatti presentati con quel tocco in più, che ti fa ammirare la disposizione degli alimenti nel piatto prima ancora di averne degustato il sapore. Il tocco in più in questione, sul mio filetto in crosta di pistacchi con piccolo sformato di zucca, era una semplice spolverata di minuscoli granelli rosa sul fondo lucido e bianco della porcellana. Assaggio. E’ sale. Probabilmente sale rosa dell’Himalaya, anche se il colore era più intenso. Effetto carino, che mi è rimasto a frullare in testa per un po’, fino a quando al supermercato mentre cercavo lievito e zucchero a velo non mi sono imbattuta in un flacone di colorante alimentare ed è scattata la scintilla. Ci provo, ho pensato. Al massimo butto via una tazza di sale. Così, un po’ per scherzo un po’ per gioco, è nato questo sale rosa, che l’Himalaya non lo ha visto neppure in cartolina, ma è così bellino e poi ci sta d’incanto nel mio macinasale d’acciaio nuovo di zecca. Da usare nei giorni più opachi, per rallegrare un piatto e provare a vedere un po’ di rosa anche nel grigio più fitto.

Sale rosa

Ingredienti:
sale marino grosso
colorante alimentare liquido rosso
un barattolo di vetro con tappo ermetico

Preparazione:
Versare il sale grosso nel barattolo di vetro, aggiungere alcune gocce di colorante, chiudere il tappo e sbattere bene il contenuto per spargere il colore su tutto il sale. Se il colore è troppo chiaro aggiungere altre gocce e ripetere l’operazione fino al raggiungimento della tonalità desiderata. Aprire il barattolo e versare il sale su di una scodella foderata con un paio di salviette di carta da cucina, per assorbire l’umidità. Posizionare la scodella per una giornata sopra ad un termosifone o vicino ad una fonte di calore e lasciar asciugare bene, girando ogni tanto il sale con un cucchiaio. Et voilà, il sale rosa è pronto.

giovedì 10 dicembre 2009

Di albero, fiocchi e campanelle

Il ponte dell'Immacolata ha portato diverse cose con se, alcune piacevoli ed altre meno, ma quella più simpatica e sicuramente più attesa, soprattutto dalla sottoscritta che necessitava parecchio di una sessione creativo-rilassante, è stata la vestizione dell'albero, edizione duemilanove. Come sempre la veste di designer, di stilista e pure quella di manovale, visto che la piccola apprendista era altresì occupata ad allestire l'architettura del presepe, mi diverte e mi riempie di soddisfazione, bello o brutto che sia il risultato. Perfetto, ho pensato. Un po' triste quest'albero, ha decretato il Galletto. Belliiiiino, ha detto la pulcina, che evidentemente avrebbe gradito qualcosa di un po' più fancy. Ma io non mi scompongo, qui è normale che non la si pensi mai allo stesso modo. E siamo solo in tre, figuriamoci un po'. Per me resta un albero perfetto per questo freddo Dicembre farcito di ansia, pensieri opachi e sprazzi di allegria. Tanto bianco, vetro soffiato, cristalli, tocchi di rosso e le mie bianche campanelle di porcellana che tintinnano appena le si sfiora, dieci quest'anno come gli anni della picci. Benché sia un caso che la prima mi sia stata regalata nell'anno del suo primo Natale non posso fare a meno di pensare a questa piacevolissima coincidenza. Un albero di fiocchi di neve, grandi e glitterati o piccoli e candidi come quelli di legno fatti dalla pulcina un paio di anni fa. Se poi riesco ad imparare la tecnica e a riprodurli su carta, ne farò mille altri, per l'albero, per appendere alla balaustra delle scale, per appiccicare ai vetri delle finestre, per innevare le scrivanie dei miei colleghi. Nel frattempo continuo ad esercitarmi qui. Taglio, ritaglio e mi ipnotizzo. Un efficacissimo antistress.

lunedì 7 dicembre 2009

Happy hour

Sto facendo di tutto per non farmi travolgere, per sdrammatizzare, per respirare. Allora creo giorni fatti di una miscela strana, dove tra i momenti di tristezza e lacrime sparse ci infilo anche un po’ di sano egoismo, lo staccare la spina per pochi minuti o qualche ora per pensare solo a me, alla mia famiglia, a un briciolo di serenità. Così, tra un visita in ospedale e le mille questioni burocratiche da risolvere che mi sono piovute addosso, la mamma, la badante, la pensione di mio padre da riscuotere che signora mia, non vorrà mica che le venga data così sui due piedi solo perché lei è la figlia e suo padre è immobilizzato in ospedale, non lo sapeva che questo è il Paese delle complicazioni?, la banca, l’assistente sociale, e poi e poi e poi, come cantava Mina, ci sto infilando dentro prepotentemente anche degli sprazzi di allegria, di piccole felicità, di cose che mi facciano star bene. Come se imballassi dei fragilissimi cristalli dentro un cartone e per non farli sbatacchiare tra loro ed evitare di far cocci riempissi tutti gli spazi vuoti con una carta velina iridescente. In qualche caso cacciandola dentro a forza, ma l’importante è che serva allo scopo. Ci siamo quindi immersi per qualche ora nell’allegro e affollato centro storico domenicale, con Piazza Santa Croce trasformata in un mercatino natalizio d’oltralpe, banchi stracarichi di ogni meraviglia, dalle spezie francesi ai fumanti rotoli alla cannella tedeschi, dalle birre alla spina, ai formaggi olandesi, alle palline e ornamenti per alberi di ogni tipo e tendenza. Abbiamo fatto anche i turisti, infilandoci nella basilica e visitandola come si deve, chiostri, musei e cripte comprese, e ancora una volta mi sono sentita così orgogliosa dei capolavori che mi circondano. Abbiamo pranzato in libreria, eh sì, che ora anche le librerie hanno i loro angoli con sedie e tavolini dove, mentre si gusta una lasagna o una cioccolata in tazza si può anche sfogliare un libro con calma per vedere se ci piace davvero o mettersi alla ricerca della guida turistica più giusta per il prossimo viaggio. Ho fatto le ore piccole sotto al piumone leggendo un altro bel pezzo di libro e me ne sono dovuta staccare con la forza, che il decollo di questo thriller è stato talmente verticale ed avvincente che ero spalmata sulle pagine neanche fossi stata sul sedile dello Shuttle. L’abete che da qualche giorno stazionava in giardino strizzato nella rete come un salamino è stato invasato e ripulito ed ora è lì che mi guarda nudo, in attesa che inizi a vestirlo in qualche modo. Ancora non so di preciso, alla fine seguirò l’estro del momento, ma ogni tanto mentre gli passo accanto mi diverto a minacciarlo con un sorrisino, guarda che se non fai il bravo ti riempio di piume di struzzo e marabù. Mi sono concessa lunghe telefonate con amiche che non sentivo da tempo. E ne ho invitata un’altra a cena con tutta la famiglia al seguito. Ma che fai? con le giornate che stai passando non vorrai stare ad ingrullire con una cena? E invece è proprio lì la questione, ho voglia di immergermi nei ricettari e nel forno acceso, ho bisogno di sentire bambini giocare e voci che chiacchierano e ridono. Anche la mia, beninteso. Insomma, questo è il mio modo di stare a galla. Un mix di alti e bassi, di rosa e di grigi, di lucidi e di opachi. Il cocktail della sopravvivenza. L’importante è andare avanti. Ed ora che mi sovviene, quale altra parola potrebbe essere più indicata nel pollaio in questo frangente di questa parolina inglese che abbiamo incorporato nel vocabolario ormai da anni. Cocktail, coda di gallo. Direi che calza a pennello.

giovedì 3 dicembre 2009

S.O.S. Natale

Non sono giorni facili, questo è un dato di fatto. Però non sono sprofondata, e non è poco. Diciamo che galleggio. Mi faccio trasportare dalla marea, alta o bassa che sia, facendomi cullare dalle onde che vanno e che vengono, cercando di respirare e di concentrarmi solo sul momento, senza dannarmi e arrovellarmi troppo sul domani. Scellerata? Forse, o più semplicemente piena fino all’orlo. O magari finalmente un po’ fatalista, come mi suggerisce la cara Dani. Oppure l’incudine in gola si è finalmente sciolta, come mi diceva la mia amica Laura. Forse un po’ di tutto questo. Ad ogni modo, proprio per aiutarmi a fare il morto, cerco di immergermi nelle cose spicciole di tutti i giorni, quelle banali ma anche divertenti. La letterina a Babbo Natale, per esempio. Non la mia, che non basterebbe un’enciclopedia e poi tanto non la leggerebbe nessuno, ma quella della pulcina. Ieri si è messa d’impegno per scriverla, che anche se ormai sa che non verrà smistata dal Regio Ufficio Postale del Polo Nord ma sarà semplicemente letta da quei due comunissimi mortali che l’hanno messa al mondo, i quali ne divulgheranno il contenuto a nonni e zii quando lei non sarà a portata d’orecchio, anziché diventare un ennesimo ordine da evadere per gli elfi e gli gnomi che lavorano a bottega dal buon vecchio vestito di rosso, la picci resta una tradizionalista e ci tiene a mettere le sue intenzioni nero su bianco. La prima parte della letterina, quella riguardante i mea culpa sulle varie birbanterie commesse durante l’anno precedente e gli impegni a migliorarsi per quello successivo, è scorsa via facile e veloce. Il problema è nato quando ha dovuto iniziare a scrivere i suoi desideri: praticamente non ne ha. Sì, ha scritto che le piacerebbero un paio di bagno schiuma con, cito testualmente, profumi sfiziosi tipo cioccolato e zucchero a velo. Poi ha scritto che vorrebbe il nuovo libro della saga che ama tanto. E un paio di calze nere. Dopodiché il nulla. Le liste infinite di qualche anno fa, con svariati modelli di Barbie, case e transatlantici delle Polly Pocket, giochi in scatola e bambole corredate di abiti e pannolini, sono finite. Di libri se ne comprano già a bizzeffe durante l’anno e alla fine sono più quelli ancora nuovi sugli scaffali della sua cameretta di quanti in realtà ne riesce a leggere. Per scarpe e vestiti ho un debole io, e la rimpinzo non poco, soprattutto da quando in questa città hanno aperto i miei paradisi terrestri, tali Zara e H&M. Attrezzature sportive non le mancano, gadgets elettronici nemmeno, sebbene per quest’ultimi lei non vada poi così matta. Così, la lista piange. Per carità, non son certo queste le disgrazie. Vorrà dire che se la mini lista andrà subito esaurita, riceverà anche qualche pensierino a sorpresa, cosa che non fa mai male. Ma io son qui che mi chiedo se essere orgogliosa di una figlia apparentemente poco consumistica, se vantarmi di tutti i miei pensa a chi non ha nulla, o se alla fine non abbia creato un mostro.

martedì 1 dicembre 2009

Sabbie mobili

Scrivo, scrivo, scrivo. E’ tutto il giorno che aspettavo il momento in cui mi sarei seduta davanti a questa tastiera e avrei cominciato a scrivere, lasciando andare le dita alla rinfusa, come un pianista quando suona ad occhi chiusi, saltando da una lettera all’altra senza un ordine, senza una traccia da seguire, per liberare tutto quello che mi circola dentro da qualche giorno, che è esploso così, improvvisamente, lasciandomi svuotata da ogni energia e riempita di troppa malinconia. E rabbia, pure , quella non manca davvero. E preoccupazione, ma sì, mettiamoci pure quella, che io dico, dico, ma alla fine mannaggia a me non son mica fatta di pietra. Tanto tuonò che piovve, avrebbe detto mia nonna, ed in effetti quel che sta capitando adesso era matematico che sarebbe accaduto, solo il quando era l’unica incognita. Mio padre in ospedale, sperando che qualcuno possa capirci presto qualcosa. Camminava e non cammina più. Muoveva le mani, afferrava gli oggetti, come te e come me, ed improvvisamente le sue mani tremano e basta, e non è solo paura. Mia madre chiusa in quelle quattro mura, tra il letto, la sedia a rotelle e quella televisione sempre accesa che serve soltanto a far da colonna sonora alla disperazione. Io che ad ogni pensiero mi faccio fagocitare da un ricordo, che isso le barricate per non farmi travolgere, che piango, litigo e scalcio per rendermi conto amaramente che così facendo riesco solo a sprofondare ancora di più. Allora improvvisamente mi arrendo, sventolo bandiera bianca e mi apro, come una stella marina a braccia e gambe aperte sulla superficie del fango, volto il viso di lato e respiro. Resto immobile. Respiro. Non sprofondo più.

giovedì 26 novembre 2009

Buon sangue non mente

Tra le varie prove di italiano che vi sono in quinta elementare, testi lunghi, testi brevi, sintesi e testi poetici, oggi in classe della pulcina si sono cimentati nello scrivere filastrocche. Sapevo già che queste rime buffe e svolazzanti sono una mia passione, per scrivere in modo lieve e spensierato anche qualche concetto che proprio leggero a volte non è. Oggi ho imparato che in famiglia c'è qualcun altro che la condivide con me.

La città che vorrei

Vorrei una città con più giardini
dove poter giocare con tanti bambini
vorrei una città piena di felicità
senza violenza né criminalità.
Vorrei una città dove nessuno butta le cose per terra
o faccia la guerra
vorrei una città non inquinata

e meglio trattata.
Insomma vorrei una città
piena di vita e di tranquillità.

lunedì 23 novembre 2009

Aridanghete

Che barba, che noia. Che noia, che barba. Come dice la Mondaini. Uffa, che palle. Come dico io. Insomma, ci risiamo. E’ arrivato quel periodo dell’anno che amo e che odio, che mi piace da pazzi e che se potessi salterei direttamente al sette Gennaio, che mi fa andare in fibrillazione alla prima pallina glitterata che vedo e che mi fa salire l’ansia come non mai. Non sono impazzita, o forse è proprio perché lo sono, ma il mese che precede il Natale mi fa sempre quest’effetto, mi elettrizza e mi deprime al tempo stesso. Un ottovolante di sentimenti contrastanti, una giostra impazzita che non si fermerà fino ai primi giorni del duemiladieci. Benché ogni anno mi premunisca, indossando una lucente armatura e allenandomi con un po’ di training autogeno, ci ricasco sempre. Vado in brodo di giuggiole all’idea di decidere il colore dell’albero, il leitmotiv delle decorazioni, indecisa tra il bianco totale, il viola luccicoso, che però da queste parti potrebbe essere equivocato con un amore sviscerato per la Fiorentina, cosa che manco per l’anticamera, e le decorazioni bio, tutte legno, feltro e bacche in quantità. Piango lacrime amare al rileggere quella poesia scritta dalla dodicenne gallinella, …di fronte ad un albero spento, nel silenzio del giorno di Natale, al ricordarmi perfettamente la tristezza del giorno in cui la scrissi, e al rendermi conto di quanto quei Natali mancati mi manchino ancora così tanto. Sfoglio con ardore la brochure natalizia di Ikea che ha invaso il portapubblicità fuori dal portone, innamorandomi di qualsiasi lucina come se nemmeno dovessi illuminare l’Empire State. Abbraccio mia madre e non riesco a stringerla come vorrei, non posso non pensare ai nostri Natali di solitudine, a quanto la vita si stata ingiusta con lei, con noi, e mi sento assalire da quel dolore che conosco così bene ma al quale, diamine, non ci si abitua mai. Cercherò di camminare guardando dritto davanti a me, come un equilibrista sul filo, senza pensare al vuoto che c’è sotto ma solo alla bellezza del cielo che mi sovrasta. Mi butterò nella mischia, perché è così che si fa, e vai di calendari dell’avvento, di letterine a Babbo Natale anche se non ci si crede più perché far finta è forse ancora più bello, di liste di regali da buttar giù con un occhio ai desideri ed uno al portafoglio, di presepi da allestire con muschio e sassolini sul mobile nuovo e qualche biglietto old style da scrivere a mano e spedire leccando il francobollo. Se ogni tanto mi si velerà lo sguardo, darò la colpa al raffreddore.

giovedì 19 novembre 2009

Cedo il passo

Capita di vincere un premio per aver scritto un post sui nostri giorni di neve e poi quasi dimenticarsene, sai che ti arriverà in autunno inoltrato e adesso che sta scoppiando la primavera non è certo facile tenere in mente un qualcosa che ti servirà solo quando le montagne saranno nuovamente ammantate di bianco. Così quando l’efficientissima organizzazione del concorso Dolomiti Superski lo scorso Aprile mi ha comunicato che il mio premio sarebbe arrivato a Novembre, ho archiviato mentalmente la pratica e non ci ho pensato più. In Aprile si pensa a tutto, ai fiori, a quel bikini che ti ha rapito il cuore, al gloss nuovo rosa peonia, ma all’attrezzatura da sci decisamente no. La settimana scorsa, mentre tiravo fuori dall’armadio l’attrezzatura sciistica della picci per provargliela e capire se quest’anno saremo dispensati dall’acquistarne una nuova o corriamo il rischio di portarla a sciare con i pantaloni stile acqua in casa, mi sono ricordata del mio premio e sono andata a rileggere la mia posta elettronica per vedere quando sarebbe dovuto arrivare: Novembre. Arriverà, ho pensato. Ed infatti, oggi, il pacco è arrivato, puntuale come promesso, che in quanto a precisione ed organizzazione gli altoatesini vanno lasciati stare. Una specie di regalo di Natale anticipato. E quando non te lo aspetti più un regalo fa ancora più piacere. Un bellissimo casco da sci Dainese firmato Dolomiti Superski, di uno splendido bianco perlato opaco molto glamour, che immediatamente ho provato per vedere l’effetto che facevano i ciuffi biondi che fuoriuscivano impertinenti. Favoloso. Roba da far voltare tutti gli addetti agli skilift, da fermare il traffico sulle piste da sci e far morire d’invidia anche qualche maestro. Peccato che la bionda chioma, però, non fosse la mia. Per la vecchia gallina il solito casco nero basta e avanza. Quella che farà colpo sulle piste, la modaiola del comprensorio stavolta sarà la pulcina. Direi che adesso sia arrivato il suo turno.

martedì 17 novembre 2009

L'intervista

Bellissima giornata autunnale, mite, soleggiata. Il tempo ideale per fare un po' di giardinaggio e piantare i bulbi che da diversi giorni aspettano con fiducia nei loro sacchetti. Scaverò i buchini e li metterò a dormire nei loro letti umidi e bui in attesa che il primo sole di primavera li faccia decidere a mettere il naso fuori. E cercherò di scrollarmi di dosso questo leggero velo di malinconia che mi ha incupita un po'. Ho ritrovato dopo tanto tempo quel nastro dove diversi anni fa, un pomeriggio che io e la pulcina, allora treenne, decidemmo di giocare all'intervista, registrammo le nostre voci. Il gioco, che poi ripetemmo un altro paio di volte, consisteva nel mio intervistarla, con tanto di microfono, chiedendole di raccontarmi cosa aveva fatto all'asilo, cosa le piaceva mangiare, se mi raccontava una fiaba o mi diceva la filastrocca di Natale appena imparata a memoria, e lei che tutta impettita rispondeva e chiacchierava senza freni, tenendo tra le mani quel microfono fucsia del registratore di Barbie come vedeva fare in tivù, beandosi un mondo del suo nuovo ruolo di star. Lei stessa ha ritrovato il nastro, mi ha chiesto cosa fosse e naturalmente ha voluto subito ascoltarlo. E' stato buffo sentire quella vocina che usciva fuori dallo stereo, mentre la decenne di adesso rideva alle cose strampalate dette da lei stessa un bel po' di tempo fa. Ho riso e mi sono anche commossa, ma purtroppo mi sono accorta che non ricordavo più la sua voce. Ricordavo perfettamente il pomeriggio in cui incidemmo il nastro, noi due sedute sul divano, l'atmosfera, i colori, forse anche i nostri abiti. Ma non ricordavo più il suono della sua voce: quella piccolina che chiacchierava al microfono poteva essere chiunque. Ho riconosciuto il suo modo di parlare, alcune sfumature particolari, le risatine, ma la voce l'avevo dimenticata. Penso che sia assolutamente normale, soprattutto in una famiglia dove non ci sono filmini da riguardare e riascoltare e dove quindi non si ha l'abitudine a rivedersi come eravamo con voci e movenze, ma ci sono rimasta male lo stesso. Avrei pensato che una mamma si dovesse ricordare ogni minima inflessione della vocina della sua bimba, anche dopo anni. Non è stato così e credo di dover metabolizzare questa delusione nei confronti di me stessa. Adesso basta lagne però, mettiamoci a scavare e guardiamo di seppelire nel terriccio insieme ai bulbi anche questa stupida malinconia, che a primavera si trasformerà in un tripudio di colori. Magari proprio per la festa della mamma.

domenica 15 novembre 2009

Oggi sposi

Uno degli ingredienti della ciofeca che ho miseramente fatto di recente era la farina gialla, e se da un lato quel pacco praticamente intero che ogni giorno mi guardava dal ripiano della dispensa me la faceva tornare impietosamente alla mente, dall’altro mi metteva una gran voglia di utilizzarla in qualche modo. Benché queste giornate umide e fredde sarebbero state proprio l’ideale per un buon piatto di polenta, l’idea non mi ispirava abbastanza, e il pacco di farina gialla continuava ad attendere. Fino al momento in cui ho deciso di trarre ispirazione dalla suddetta ciofeca, che altro non era che una torta di pere caramellata, per modificare una semplicissima torta di mele e renderla un po’ diversa. O la va o la spacca. Beh, dal forno stavolta è uscita una torta perfetta, dolce e aromatica, con quella leggera granulosità della farina gialla che si sposa perfettamente con la morbidezza delle mele. Che importa se il matrimonio originale prevedeva le pere, tanto non avevano ancora pronunciato il fatidico sì.

Torta di mele gialla al profumo di cannella

Ingredienti:
due mele
due uova
150 gr. zucchero
120 gr. farina 00
60 gr. farina gialla
75 ml. latte
burro
un cucchiaino di lievito
cannella in polvere
miele di acacia
Grand Marnier

Preparazione:
Versare lo zucchero e le uova in un recipiente a sponde alte e frullare con le fruste elettriche fino ad ottenere una crema chiara e gonfia. Ridurre la velocità e incorporare la farina bianca e quella gialla, il lievito, il latte ed un cucchiaino raso di cannella in polvere. Imburrare ed infarinare una tortiera e versarci il composto. Sbucciare le mele, tagliarle a fettine ed infilarle nell’impasto a raggiera, fino a ricoprire tutta la superficie. Spolverizzare con un cucchiaio di zucchero e qualche fiocchetto di burro. Cuocere in forno caldo a 180° per circa 45 minuti, fino a che la superficie sia ben dorata. A fine cottura far sciogliere in un pentolino un cucchiaio di miele con uno di Grand Marnier allungando con un goccino di acqua e cuocere per un paio di minuti per far evaporare l’alcool. Togliere la torta dal forno e spennellare subito la glassa al miele su tutta la superficie. Servire tiepida.

mercoledì 11 novembre 2009

C’era una volta un gancio

Un gancio in fondo è poca cosa. Sulla scala dei valori del ferramenta perfetto si trova nella minutaglia, poco sopra alle puntine da disegno e sotto ai bulloni ottonati. Più o meno a metà classifica, come le squadre di calcio così-così, quelle senza lode né biasimo, che a fine campionato ce la fanno a sbarcare il lunario senza essere retrocesse ma che oltre ad essere ben lungi dall’approdare in zona scudetto neppure arrivano a sfiorare la Champions (e qui sarà bene smetterla con gli sproloqui calcistici perché le mie conoscenze specifiche non vanno molto oltre e rischio lo sfondone). Una mezza tacca insomma, tra viti, chiodi e banalissime rondelle. Il semplice gancio metallico si trova lì, in uno dei tanti cassettini sulla parete del negozio di ferramenta. Destinato ad essere inchiodato alle umide pareti di bagni e cucine per sostenere accappatoi, asciugamani e canovacci. Eventualmente nascosto per l’eternità al buio dietro a un quadro, a far amicizia con ragnatele e moscerini. Financo utilizzato dietro le porte delle camere da letto per accogliere vestaglie, pigiamoni e le retine per capelli delle vecchie zie. Ma il destino, signori miei, si può stravolgere. Chi l’avrebbe mai detto che un umile gancio argentato destinato per nascita a ruoli banali sarebbe un giorno assurto al rango di portagioie? Oh, sì. Incredibile ma vero, una dozzina di semplici ganci metallici son stati trasformati dall’abile bacchetta magica del Galletto nel mio portacollane personale. Posizionati all’interno delle ante del mio armadio, divenuti nuovi dirimpettai di denim, velluto e merinos, eccoli pronti a sostenere questo nuovo ruolo così chic, ricoperti da innumerevoli fili di perle, catene, bagliori di strass e perline, nastri di tulle, nappe di seta e semplicissimi pendenti zen. Vuoi mettere? Pare che appena si è sparsa la notizia in ferramenta sia scoppiato un delirio di gossip tra gli esclusi. L’invidia, si sa, è una brutta bestia. Mai dire mai amici ganci, nella vita non bisogna mai perdere le speranze. Cenerentola insegna.

lunedì 9 novembre 2009

Un tranquillo weekend di suina

Erano già più di due settimane che tutti i bambini intorno alla picci, compagni di scuola, lupetti, amiche di danza, di catechismo e chi più ne ha più ne metta, stavano cadendo giù come mosche sotto i colpi della suina, e questo suo restarne illesa, continuando a far da portavoce tra la maestra e i malati per compiti e altre amenità scolastiche, saltellando come un grillo, mi pareva sinceramente una posizione molto traballante. Lo percepivo insomma come uno stato di grazia destinato a durar poco. Ovviamente mi sono tirata la fiatata da sola, perché da sabato sera facciamo parte della nutrita schiera di famiglie italiane con figli febbricitanti squassati da colpi di tosse che nemmeno l'orco di Tolkien. Continuo a ripetermi che alla fine si tratta solo di una influenza, che tra qualche giorno sarà passata e buonanotte al secchio, ma devo ammettere che tutto questo allarmismo di giornali e televisione è riuscito a farmi venire un po' d'ansia. Così, mentre lei si bea di questo status privilegiato, sdraiata sul divano in compagnia di libri e dvd e la fantasmagorica prospettiva di alcuni giorni senza scuola, libera di programmarsi i pomeriggi a suon di Nintendo e puntate registrate del Falco e la Colomba, io la osservo di sottecchi, sbircio, controllo, studio, attenta al colorito, agli occhi lucidi, alla temperatura. E non mi riconosco. Mai stata impensierita dalle sfebbrate, dai mal di gola o dalle scarlattine, mentre a questo giro avverto nettamente un po' di timore. Quando si dice la potenza dell'effetto mediatico.

giovedì 5 novembre 2009

Un po' pane, un po' pizza

Lo avevo detto subito a questa fata dalle mani d'oro che avrei provato a rifarlo. L'idea di un pane al sapore di pizza mi stuzzicava parecchio, da usare come snack, per farci panini, tartine o semplici fettunte. E poi una che mangerebbe Margherite a colazione, Napoli a pranzo e Capricciose a cena non poteva certo farsi scappare questa intrigante ricettuzza. E se manca il tempo per impastare non c'è problema, la mia fedele aiutante ha provveduto a tutto, mentre io mi arrampicavo sulle ripide pareti del Cervino di panni da stirare che staziona perennemente in casa mia. Così mentre sbuffavo in sincrono col ferro a vapore, dalla macchina del pane ha cominciato ad uscire un meraviglioso aroma di pizza. Il tempo di far intiepidire un po' quel bellissimo pane dal caldo colore aranciato, che io e la picci lo abbiamo subito inaugurato con un giro d'olio d'oliva e qualche fettina di bufala campana. Una meraviglia.

Pan Pizza

Ingredienti:
un barattolo di pomodori pelati da 350 gr.
25 gr. lievito fresco
200 gr. farina 00
200 gr. farina Manitoba
200 gr. semola di grano duro
un cucchiaino di zucchero
due cucchiai di olio extra vergine di oliva
sale e origano (da inserire successivamente)

Preparazione:
Versare tutti gli ingredienti insieme nella macchina del pane, senza aggiungere acqua (il liquido dei pelati è sufficiente). Selezionare una cottura normale e una doratura media. Quando la macchina emetterà il caratteristico beep di aggiunta ingredienti, versare un cucchiaino colmo di sale e abbondante origano.

lunedì 2 novembre 2009

Paura

In autobus è impossibile non ascoltare le conversazioni altrui, soprattutto quando parlano proprio accanto a te ed hanno un'età che tra non molti anni sarà quella di tua figlia. Ti incuriosisce sempre guardarli, osservarli, i gesti, le movenze, vedere che per molti aspetti non sono poi diversi da come eri tu alla loro età, mentre per altri li senti lontani anni luce. Un lui ed una lei, amici, liceali, intorno ai sedici anni, curati, carini. Lui le chiede cos'è successo poi l'altra sera. Le non sa, non ricorda, era in botta, ricorda solo dei flash. Lui le chiede se aveva bevuto molto, lei risponde tre birre, lui dice che non era poi molto. Poi le chiede se dopo la birra ne aveva presa, lei risponde di sì, che non ricorda niente di ciò che è successo dopo, solo degli sprazzi, quando ha cominciato a calare, che non sa cosa ha fatto né come ha fatto a tornare a casa. Lui ridendo dice che allora lo chiederà a Matteo, magari lui se lo ricorda. Ride anche lei. Poi vanno avanti, devono scendere alla prossima, un noiosissimo lunedì mattina di scuola li attende. Non si accorgono di quella donna di mezz'età che resta seduta, immobile, lo sguardo perso nel vuoto. E' una madre terrorizzata.

venerdì 30 ottobre 2009

Sorrido

Sorseggio il caffè, lo sguardo vaga sul giardino, la pervinca da travasare e i lunghissimi tralci del ricosperno che si stanno facendo strada sul gazebo. Il cielo pesante, di bruma, grigio e spesso come una coperta di quelle vecchie e un po' infeltrite in fondo all'armadio della nonna. So che sta solo scherzando e che tra poche ore il sole brillerà spavaldo. Sorrido a questa giornata che mi aspetta, e non è facile che lo faccia così di prima mattina, con gli occhi abbottonati e la felpa infilata in fretta sopra il pigiama, in genere sono un po' storta appena sveglia. Sorrido stamani, perché ieri la cicogna ha portato una bambina speciale, di cui io non sono niente ma della quale mi sento una specie di zia, che mi ha fatto ridere e piangere e scrivere una delle mie strambe filastrocche, e penso a come sia strana la vita, questa vita che ti fa sentire nipote colei che non lo è e molto poco quella che lo è realmente. Sono le grinze di questo telo che ci avvolge e ci accompagna, e hai voglia a stirarle, ci son pieghe che non se ne andranno mai. Sorrido, perché adoro queste giornate lucide e croccanti, costellate di milioni di cose da fare, non ultimo il costume da Strega dei Pipistrelli da finire di approntare per la picci che quest'anno festeggerà Halloween anche a scuola, dopo quattro anni di trick or treat subiti da quelli di quinta, quest'anno finalmente tocca a lei. Sissignori, il nonnismo si impara da piccoli. Sorrido all'idea della cena di stasera, esclusivamente a base di ciane & sushi, le amiche di una vita che sicuramente invecchiano ma che quando si ritrovano aprono l'involucro come matrioske e lasciano uscire le giovincelle spensierate che nonostante le carriere, i mariti, i figli e i divorzi sono ancora ben presenti dentro di loro. E giù risate sgangherate e hai saputo, ma dimmi, racconta. Una di quelle serate che diciamo sempre che dovremmo fare più spesso e poi facciamo solo raramente. Sorrido stamani, mentre scongelo il tacchino per la cena solinga di marito e figlia e penso che nel fine settimana rifarò sicuramente quel favoloso gratin di pere e patate che mi ha insegnato Alex. Sorrido e guardo il cielo. Adesso sembra rosa.

giovedì 29 ottobre 2009

Emma

Emma è arrivata in un giorno di sole
d'azzurro, d'autunno e quel che ci vuole
io guardo la foto e cado estasiata
poi piango, poi rido, son già innamorata.
Tanti capelli, neri come di seta
un cuore di bocca scritto da mano poeta
la vita ti aspetta lungo un viale infinito
da percorrere fiera con sguardo pulito.
Che siano giornate da correre al mare
soffi di gioia e tanta neve a Natale
la scuola, le risa, alcune lacrime tristi
la vita è un po' tutto, dobbiamo esserne artisti.
C'è un pacco incartato di rosa e di argento
contiene un regalo che sia uno strumento
per i tuoi primi giorni leggeri e speciali
e poi prendere il volo spiegando le ali.
Ti auguro il meglio, il tutto, l'assai
che il mondo sia proprio come lo vorrai
colori, sospiri, capriole e bontà
ti auguro tutto e, per te, resto qua.

martedì 27 ottobre 2009

Lupetti d'autunno

Il cielo azzurro, il sole brillante, quel tanto di vento a ricordarci che, signori miei, siamo in autunno, le foglie degli alberi in ogni nuance possibile, roba da fare invidia a quelli del Pantone, gialline, rosate, rosse, dorate, cacao, verdi, arancioni, violette. L'erba dei campi un po' più fina, rada, come asciutta, mentre qualche zolla rossa fa capolino qua e là. Un bouquet per l'altare della minuscola chiesetta da improvvisare al momento, a seconda di quello che offre Madre Natura, alcuni rami di vite americana rosso cardinale piena di bacche blu, un po' di verde, il giallo delle bocche di leone e l'azzurro profumato della nipitella, il risultato è sorprendente, nemmeno l'avesse fatto una fiorista, o forse è solo perché è più vero, più puro. I lupetti che ridono, corrono, poi formano i cerchi e noi, da lontano, li osserviamo con un misto di orgoglio ed emozione, increduli che quelli che solo fino a ieri erano cuccioli adesso siano già pronti ad entrare in reparto. Al primo grido di chiamata del capo scout accorrono tutti obbedienti e perfetti, e mi chiedo dove stia l'errore quando sono io a chiamarla al parco e devo perlomeno ripetermi dieci volte, bisognerà che mi faccia insegnare la parola magica, ma ho paura che il risultato non sarebbe comunque lo stesso. La commozione ci assale all'improvviso, il capo scout ha deciso di lasciare il branco, e anche se il nuovo Akela è sicuramente altrettanto bravo e già molto amato, lì per lì ci si sente tutti un po' smarriti e pronti alla lacrima, ma i bambini sorridono, ed è questa loro serenità a farci dimenticare tutto. Siamo felici di vederli così, è talmente tangibile questa contentezza che la si potrebbe quasi toccare con mano. Il pranzo sotto il sole è una meraviglia, le chiacchiere, i panini, torte e crostate da assaggiare e condividere, risate e allegria, un sorso di vino e l'inaspettato thermos di caffè che fa scoppiare un fragoroso applauso. Bisognerebbe che le domeniche d'autunno fossero sempre così. Da ricordare.

domenica 25 ottobre 2009

Gallina vecchia fa buon brodo

Beh, io non posso che essere d'accordo. Assolutamente.

venerdì 23 ottobre 2009

Il mio vecchio amico undici

Io mi affeziono a tutto. Agli alberghi dove vado in vacanza, ai biglietti di auguri, al geco che trascorre le sere d'estate sul muro in fondo al giardino, perfino alle fotografie sul calendario, pur sapendo in partenza che quest'ultime al massimo sono destinate a durare trentun giorni. Stamani ho scoperto di essermi affezionata anche all'autobus. E' l'ultimo giorno di quella linea che da otto anni prendo tutte le mattine per andare in ufficio, che molto comodamente senza dover effettuare cambi mi porta direttamente da casa mia al luogo dove lavoro. Salgo al capolinea e quasi sempre trovo un posticino a sedere, dove per i successivi venticinque minuti mi immergo nella lettura del libro di turno o lascio vagare lo sguardo al di là dei vetri, quel guardare e non guardare con gli occhi un po' incantati, mentre in testa frullano dozzine di pensieri. Da domenica quella linea andrà in pensione, insieme ad altre, tutte modificate, accorciate, soppresse od allungate, in vista del cambiamento radicale che sta per avvenire in questa città che si diceva non facesse mai nulla di nuovo. Il nuovo sindaco invece non scherza, quello che dice di fare lo mette subito in pratica, e ciò mi piace parecchio. Odio quelli che si riempiono la bocca di parole e poi non fanno nulla di concreto. Qui adesso perlomeno ci si prova e se sarà un casino, si proverà a risolverlo. Il centro storico sarà definitivamente pedonalizzato e se da un lato sarà un sogno poter passeggiare liberamente accanto al cupolone, senza la paura di venir messi sotto da motorini e torpedoni, sarà anche un incubo cercare di dirottare tutto il traffico, autobus compresi, su percorsi alternativi, in una città fatta perlopiù da viuzze medievali. Così anche la mia amata linea Ataf viene prepensionata e lunedì mattina, lo so, sarà un delirio andare al lavoro, e già immagino le file di auto, i clacson a sirena e gente che inveisce in tutte le lingue. Cercherò di aver pazienza, del resto tutte le novità hanno sempre bisogno di un po' di tempo per funzionare a pieno regime. Almeno spero. Nel frattempo stamani guardavo il mio bus con l’occhio un po' mesto, pensierosa ed immalinconita. Scendendo ho sfiorato la portiera con un tocco diverso ed ho bisbigliato un ciao. Salutavo un vecchio amico.

mercoledì 21 ottobre 2009

La ciofeca

Sicuramente la vita di ogni grande chef è costellata di ricette mal riuscite ed esperimenti finiti nel secchio, ciononostante quando questo accade ci si resta sempre male. Se poi si aggiunge il fatto che la sottoscritta è ben lontana dall'essere un grande chef, anzi neppure mezzo, al limite un ibrido tra una cuoca da mensa e una desperate housewife di periferia, la questione è senz'altro più avvilente. E' da ieri sera che ci rimugino, che cerco giustificazioni, cercando di capire i come e i quando che mi hanno portata a sfornare una torta che non si poteva nemmeno guardare, ma resta il fatto che ho prodotto una ciofeca e ci son rimasta male. Sbagliando s'impara, questa è sicuramente una grande verità, ma l'abbacchiamento resta. Avevo ritrovato una ricetta che avevo messo da parte tempo fa, proveniente da una rivista americana, e ieri ho deciso di provarla. Una torta di pere, perfetta per la stagione, con qualche ingrediente insolito che mi stuzzicava la fantasia. Così mi son messa subito a fare i compiti, facendo tutte le dannatissime conversioni di quelle antipatiche misure americane fatte di cups e tablespoons, facili solo all'apparenza, visto che un cup di farina non corrisponde ad un cup di burro e neppure ad uno di latte. Insomma, una goduria di conteggi, svolti per fortuna da un paio di programmini ad hoc che convertono qualsiasi cosa. Acquisto gli ingredienti che mancano all'appello e parto in tromba, forno acceso e musica in sottofondo. Sarà stata la mia ignoranza da cuoca di periferia, qualche errore di stampa nella ricetta originale o forse avevo Saturno contro, e magari anche Marte e Plutone, ma evidentemente c'era qualcosa che non andava. Da quel forno è uscito fuori un alien appiccicoso, mezzo disfatto e pure bruciacchiato. Immangiabile. E la tortiera talmente incrostata di caramello che lì per lì ho pensato di doverla buttare. Mamma non prendertela, mi ha detto la picci, sai che però ha un buon profumino? Beh, già qualcosa, perlomeno non ho dovuto aprire tutte le finestre, col freddo che faceva. Vabbè, un passo falso ogni tanto ci vuole, ci si avvilisce ma poi si riparte con più energia. E guarda caso proprio stamani ho letto la ricetta di quella tortina che...

lunedì 19 ottobre 2009

Il fiocco sul portone

Il fiocco sul portone è stato un'emozione. Non c'era stato più nessun fiocco dopo quello di mia figlia. Del resto il condominio è piuttosto piccolo e le famiglie papabili alle fine son solo due, mettendo nel conto anche la nostra che però, come Paganini, non credo che si ripeterà. Così, dopo dieci anni, in un giorno ventoso è apparso un altro fiocco sul portone, rosa anch'esso come colui che l'aveva preceduto, perché il futuro è rosa, come dice lo spot che preferisco in questi giorni. Un cuore ricamato a punto in croce con uno svolazzo di tulle. Come non pensare al mio, quadretti Vichy e nastrini di raso, ormai scolorito e sciupacchiato ma ancora appeso dietro alla porta della camera della pulcina, un po' ricordo, un po' portafortuna, ma guai a chi glielo tocca. E che emozione salire le scale per andarla a conoscere, questa nuova vicina di casa, un dolce batuffolino addormentato nella sua culla, i pugnetti alzati e un filo di sorriso appena accennato. Io e la pulcina la guardiamo in silenzio, mi sembra di tornare indietro nel tempo e non mi capacito di come quel ragnetto che dormiva in una culla quasi uguale possa essersi trasformato in questa jena bionda avvinghiata al mio braccio. Mentre ascolto la mamma orgogliosa che racconta di travaglio e poppate penso che la vita scorre via troppo in fretta e che troppo spesso mi lascio travolgere dall'essere sempre in ritardo, sempre di corsa, togliendo il tempo ad una carezza, a una coccola, a una parola speciale, pensando che ci sia sempre un dopo. Un dopo che quasi sempre fugge però, e il momento è passato. Gli occhi mi si fanno lucidi, mannaggia a me, adesso penseranno che sono andata a trovare una neonata con il raffreddore, ma non è così. Godetevi ogni momento, ogni attimo, che non ritornerà. Cercherò di farlo anche io. Promesso.

giovedì 15 ottobre 2009

Freddo becco

Freddo becco stamattina
con la sciarpa e l'aspirina
qui l'inverno è già arrivato
quattro gradi e cioccolato.
I maglioni in naftalina
gli stivali giù in cantina
si dovran presto cercare
per non stare a congelare.
Non ci sono vie di mezzo
ogni epoca ha il suo prezzo
che a me pare un po' salato
questo autunno da primato.
Il mare sale la pioggia scende
magari fossero leggende
spero che una nuova invenzione
ci riporti la mezza stagione.

martedì 13 ottobre 2009

L’esame di quinta

Un pomeriggio come tanti, al ritorno da scuola. Merenda, poi i compiti. Sto attraversando il soggiorno in direzione della portafinestra per andare in giardino a stendere i panni appena usciti dalla lavatrice, mentre la pulcina studia seduta al tavolo da pranzo che, c’è poco da fare, preferisce sempre rispetto alla sua scrivania solitaria al piano di sopra. Sta recitando le poesie che deve imparare a memoria per il giorno dopo. La ascolto distrattamente. Poi, improvvisamente, mi immobilizzo. Riconosco fin troppo bene la prima delle due. Sorrido. Quanti anni sono passati da quell’esame, meglio non contarli. Adesso non si fa più l’esame in quinta elementare, ma se lo facessero ancora non gli farebbe mica male a questi bambini di adesso. Sostenere una prova fa crescere, fa maturare, fa sentire più consapevoli delle proprie capacità. Si dice che nella vita gli esami non finiscono mai, ma mi chiedo quando comincino. E pensare che io l’ho fatto anche in seconda. Comunque, quei versi mi hanno trasportata indietro nel tempo, un flash-back di un attimo, ma ero lì, nell’aula della scuola Matteotti allestita a sede di esame, la nostra sezione esaminata dal maestro della classe accanto e la nostra maestra ad esaminare i suoi allievi. Insomma, una cosa alla buona, tanto per non fare favoritismi, in mancanza dei cosiddetti membri esterni. Un esame semplice, certamente, ma che agitazione che c’era nell’aria. E come ricordo bene l’attimo di puro terrore quando una compagna di classe, mentre eravamo sedute in attesa del nostro turno, mi chiese quale fosse la poesia che avevo scelto per l’esame. Sorpresa, angoscia, paura. La poesia! Non l’avevo preparata. La lista delle ricerche e dei temi da portare all'esame l’aveva presa mia madre e chissà com’era andata, non mi aveva detto che dovevo anche imparare una poesia. Non erano giorni facili quelli per noi, eravamo sole io e lei in quegli anni, lei già così maledettamente rapita dal suo terribile male e io in fondo solo una bambina. Così, chissà come, la poesia mancava all’appello. Dovevo escogitare velocemente qualcosa. Le mie compagne di classe facevano a gara a chi l’aveva imparata più lunga, tutte lì a contare i versi, la mia è più lunga della tua, la mia è molto più difficile, mentre io, molto semplicemente, non avevo nessuna poesia. Ero terrorizzata. Poi ricordo bene che volai alla mia cartella rossa, tirai fuori il libro di italiano ed iniziai a sfogliarlo velocemente. Lo sguardo mi cadde su una poesia. Perfetto, dissi, è lei. La memoria non mi ha mai tradito, e a quell’età era certamente migliore, la lessi velocemente e la imparai in un battibaleno. Quando arrivò il mio momento e il maestro mi chiese la poesia, io, tutta impettita, la declamai. Lui alzò la testa dal registro dove stava scrivendo qualcosa, mi guardò sorpreso, incredulo, poi scoppiò in una fragorosa risata. Brava, disse sorridendo, una poesia così all'esame di quinta non l'avevo mai sentita. Doveva essersi stancato di sentire tutte quelle poesie interminabilmente lunghe, chissà. So solo che Ungaretti mi salvò in corner, e l’esame fu superato brillantemente.

Soldati

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

Giuseppe Ungaretti

venerdì 9 ottobre 2009

Pensieri che nascono in bus

Girano le ruote del bus in questa mattina di venerdì. Penso che stiamo arrivando in porto con questa casa, che mi piace ogni giorno di più. Sono arrivati un po' di mobili, finalmente, bianchi, intonsi e ancora tutti da decidere, lì ci metto i calici, qui il servito da dodici e là i cd, e mi sento come una bambina davanti a un foglio bianco, con la bramosia di vedere che disegno ne salterà fuori dopo che avrò stappato tutti e ventiquattro i pennarelli insieme. Girano le ruote del bus in questa mattina grigia ma ancora così estiva. Penso a questi liceali zaino in spalla, tutti rigorosamente uguali, con quelle orrende scarpe di tela slacciate che al confronto le nostre Superga erano cent'ori, i jeans striminziti, le canotte e le sciarpine, e quei capelli sparati in avanti come se gli fosse esploso un petardo sulla nuca. E poi dicono che sono contrari alle uniformi. Girano le ruote del bus in questa mattina di sbadigli, palpebre di piombo e quotidiani da sfogliare frettolosamente. Penso che il consueto giochino degli incastri sta prendendo forma anche quest'anno, la settimana scandita dalle lezioni di danza della pulcina, dal suo branco che tornerà a riunirsi da stasera, dall'inglese che andrà infilato da qualche parte e dal catechismo che ricomincerà domenica. Lasciando tassativamente qualche spazio vuoto in questo coloratissimo puzzle, per ricordarsi che ogni tanto bisogna pur respirare. Girano le ruote del bus in questa mattina di gente che scende e gente che sale, le solite facce e anche qualche new entry. Penso che oggi pomeriggio farò la schiacciata, che l'uva è in frigo già da qualche giorno e non può più aspettare, mentre la catasta di panni da stirare inevitabilmente aspetterà domani. Girano le ruote del bus. Penso che son giorni d'autunno pieni di cose da fare e di tanta voglia di dormire. Penso che la mia fermata è arrivata. Permesso, devo scendere.

mercoledì 7 ottobre 2009

Un giorno in Franciacorta

Credo fosse dagli anni delle gite scolastiche e delle settimane bianche con le amiche che non facevo più un viaggio in pullman, con i ginocchi in bocca, le soste in autogrill e i cruciverba di gruppo, che tra una risposta e una risata abbiamo sconfitto un Bartezzaghi in meno di cinque minuti, ma anche se una partenza prima dell’alba ed un rientro a notte inoltrata restano comunque una bella sfaticata, l’atmosfera della gita di gruppo è sempre piacevole. Se poi la mèta di questo pellegrinaggio è una giornata in Franciacorta, sotto uno splendido sole autunnale, per accompagnare i novelli sommeliers in una delle più importanti cantine della zona dove tra una degustazione e l’altra di règie bollicine riceveranno il loro meritato diploma, allora anche la sveglia in orario antelucano diventa un piacere. L’emozione era tanta, e non solo in coloro ai quali di lì a poco sarebbe stato appeso al collo l’argenteo taste vin, ma anche tra i semplici accompagnatori, fidanzate, mariti, amici, mogli, come la sottoscritta, che percepivano ugualmente la tensione, la soddisfazione che faceva brillare gli occhi e anche fuoriuscire qualche lacrima di gioia a tradimento. Che buffo, e che bello, vedere tanti adulti, professionisti affermati, avvocati, medici, architetti o bancari, tornare indietro nel tempo e rivivere le emozioni del giorno della laurea o del primo colloquio di lavoro, vederli sorridere felici e brandire il diploma come fosse uno scettro. E poi la scenografia, che non poteva essere più bella. Le cantine storiche di Berlucchi, bellissime e austere, con migliaia di bottiglie in file ordinatissime, in attesa dei brindisi di domani, chi verrà stappata ad un matrimonio, chi ad un compleanno, chi ad un party e chi semplicemente per la gioia di godere di un vino prezioso fatto di centinaia di bollicine che magicamente danzeranno nel calice, come note musicali liberate nel vento. L’elegantissimo aperitivo servito nel giardino privato di Palazzo Lana Berlucchi, mentre tra una chiacchiera, una foto e un bocconcino di parmigiano, cammino su un prato verdissimo e soffice come un tappeto, racchiuso tra le mura antiche come in uno scrigno e mi sento avvolgere da un’incredibile aura di serenità, come solo certi luoghi sanno dare. Il meraviglioso pranzo nei pressi, circondati da olivi e vigneti, con la macchiolina blu del lago d’Iseo che brilla incastonata tra le montagne come uno zaffiro. Poi gli applausi, le foto di rito, i ringraziamenti, qualche risata e qualche sguardo velato. E’ giunto il momento di tornare a casa, tutti a bordo! come al ritorno da una gita scolastica. Chi ride, chi si addormenta, chi rivive ogni momento. Tutti stanchi, ma tutti, assolutamente, felici.



venerdì 2 ottobre 2009

t.v.u.k.d.b.

Lo sapevo che ci si sarebbe arrivati prima o poi, ma trovarmelo davanti è stato lo stesso una specie di choc. Lo so che è il gergo di questa gioventù degli anni duemila, che è scritto dappertutto, sui muri, sui bus, che ci fanno titoli di film e di canzoni, ma ciononostante ci son rimasta un po’ di sasso, ecco. Insomma, com’è che fino a ieri mi scriveva i bigliettini con i cuoricini e mi scriveva ti voglio tanto bene mamma e ora, di punto in bianco, è apparso un t.v.u.k.d.b.? Che poi, oltretutto, il ritrovarmi al cospetto di quella kappa mi ha fatto sgranare ancora di più gli occhi. Non bastavano le iniziali puntate, c’era pure la kappa. Così, da un giorno all’altro. E mi sento stupita, folgorata, divertita anche, un pochino, e invecchiata anche, parecchio. Insomma, torno a ripetermi, i figli crescono improvvisamente, senza preavviso, fino a ieri una timida pianticella appena spuntata dalla terra e poi, in una nottata, ti affacci al balcone e scopri un albero. Insomma, si resta di sale, ci si dispiace un po’, ma poi si sorride.

mercoledì 30 settembre 2009

Amori, amorini, amorazzi

Quando arriva l’amore c’è sempre poco da fare. Nulla, in realtà. Si resta lì a prendersi la botta, inebetiti e beati, gli occhi a cuoricino e il sorriso da paresi. Ma non c’è solo quell’amore lì, quello con la maiuscola, quello infinito e del finché morte non vi separi. Ci sono anche gli amorini volatili e passeggeri come le rondini, cherubini che svolazzano di nube in nube veloci come le frecce che scoccano, cottarelle, amorazzi, momenti di passione fugaci come un sospiro. Oh, sì. Capita, eccome se capita. Sai che noia se non ci fossero. Sono i momenti di gioia che rischiarano le giornate, che raddrizzano i momenti storti, che improvvisamente trasformano una giornata grigia piena di riunioni di lavoro e la verniciano di rosa fluò. E chi l’ha detto che debba trattarsi di Brad, di Jude o del fidanzatissimo George. Anche, sicuro, ma non solo. I miei amori toccata e fuga durano il tempo di leggere un libro che mi appassiona particolarmente e del quale non vorrei mai chiudere le pagine. Scoccano inarrestabili per un profumo recentemente ricevuto in dono e col quale è nato un folle amore a prima vista, anzi a primo respiro, che guai a non spruzzarmi i polsi ogni mattina che potrei andare in crisi d’astinenza. Nascono improvvisi per una piantina nuova da mettere sul davanzale, un’erica che forse non è erica, ma così carina e gonfia di fiorellini che solo a guardarla mi mette allegria. Mi esplodono dentro per una canzone che mi ha presa di brutto e che sentirei in continuazione, facendo a gara con la picci per chi si impossessa dello stereo per prima, nemmeno avessi dieci anni anche io. Ma che importa. Il bello è proprio lì, nel sentire queste minuscole passioni dirompenti, sciocche e leggere come ali di farfalla, lasciarsi trasportare anche da un nonnulla, sorriderne e saper godere di questo sorriso. L’amore, in fondo, è fatto anche di piccole cose.

venerdì 25 settembre 2009

Strudel settembrino

Lo ammetto. Lo strudel è uno dei miei dolci preferiti, mi piace farlo e mi piace mangiarlo. Senza dubbio perché il suo profumo mi ricorda la mia amata montagna, perché è facile da fare, e perché adoro quell’effetto sorpresa, quando esce dal forno tutto chiuso, dorato e fragrante, senza rivelare il contenuto in anticipo, come uno scrigno contenente chissà cosa, da aprire lentamente con un po' di trepidazione. Così, dopo la versione invernale e quella estiva, ho creato una versione autunnale, dolce e morbida, come una tranquilla domenica mattina d’autunno passata a cucinare in vestaglia, mentre fuori dalla finestra le foglie volano via nel vento.

Ingredienti:
un grappolo di uva nera da vino
confettura di fichi senza zucchero
250 gr. pasta sfoglia
zucchero
cannella in polvere
6 biscotti savoiardi
granella di mandorle
burro
zucchero a velo

Preparazione:
Lavare l’uva, tagliarla a metà e privarla dei semi. Metterla in un pentolino con un cucchiaio di zucchero, un cucchiaio di acqua e un cucchiaino di cannella in polvere. Cuocere a fiamma bassa per qualche minuto, mescolando dolcemente. Spengere il fuoco e far raffreddare. Nel frattempo stendere un rettangolo di pasta sfoglia di circa 30 centimetri per 25 e spalmarci sopra con una spatola due cucchiai abbondanti di confettura di fichi, fermandosi a due centimetri dal bordo della sfoglia. Ricoprire la confettura con i savoiardi sbriciolati. Versare al centro della sfoglia l’uva con lo sciroppo che si sarà formato nel pentolino, allargarla un po’ e cospargerla con una manciata di granella di mandorle. Arrotolare la pasta sfoglia chiudendo all’interno tutti gli ingredienti e rimboccando le due estremità. Fare un paio di taglietti sulla parte superiore e spennellare tutta la superficie con burro fuso. Adagiare lo strudel su una placca da forno rivestita di carta da forno e cuocere in forno caldo a 180° per circa 40 minuti. A cottura ultimata lasciar intiepidire e poi cospargere con zucchero a velo.


Con questa ricetta partecipo al concorso “Sunday Morning” indetto da Juls’ Kitchen e sponsorizzato da Macchine Alimentari.


lunedì 21 settembre 2009

Vino al vino

Non bevo, ma è come se bevessi. Nel senso che ancora non mi sono arresa alle lusinghe della nobil bevanda e continuo ad impersonare la moglie pecora nera del novello sommelier, limitandomi ad assaggiare giusto un dito ogni tanto e ben più spesso a respirarne il bouquet, ma l’atmosfera appassionante dell'universo del vino mi coinvolge ugualmente, mi affascina così tanto che, da astemia, riesco ad ubriacarmi lo stesso. Una sbornia di sensazioni, una sbronza che coinvolge tutti i sensi tranne uno. Figuriamoci se bevessi, sai che spettacolo, dovrebbero portarmi via a braccia. Nel frattempo adoro farmi travolgere da questa ebbrezza che mi riempie di gioia. Amo star lì a guardare i produttori che versano nei calici mentre narrano i come ed i perché di un certo vino, mentre gli appassionati o i semplici curiosi girovagano col calice al collo come api che ronzano di fiore in fiore, succhiando un po' lì e un po' là. Guardo, osservo, studio, rimiro. E' un mestiere di passione quello del vignaiolo, di quelli fatti col cuore e la fatica, e si vede. Ti parlano di un vino e di un'annata come di un figlio, di una vendemmia particolarmente buona come di un esame superato col massimo dei voti, di un invecchiamento in barriques come di un gioiello tenuto in cassaforte. Mi rapisce e mi incanta davvero questo mondo. Mi piace, mi piace assai. E anche se sicuramente sarà pur vero che non è tutto oro quello che luccica e che business is business tra i vigneti come tra le pareti di un ufficio, ho la sensazione che vi sia una rara purezza tra coloro che vivono di questo, un maggior calore e sicuramente tanta forza, che trasmettono negli sguardi e nei sorrisi cordiali. E mentre in cielo si addensavano i nuvoloni neri di un temporale di fine estate, osservavo gli avventori di questo semplice e intrigante appuntamento nel cuore del Chianti, gente del luogo e gli immancabili americani, molti uomini ma anche tante donne e, soprattutto, tanti giovani che chiacchieravano e ridevano tra una degustazione e l’altra. E chissà se sono stati solo i miei occhi a vederli diversi o forse il merito è davvero dei calici che stringevano tra le mani, ma mi sono sembrati lontani anni luce da quella gioventù un po’ sciupata che trascorre le serate inseguendo l’happy hour.

venerdì 18 settembre 2009

Alla luce





In questi giorni sto approfittando dei rari momenti liberi per cercare di smistare le tonnellate di fotografie fatte durante l’estate, che con la digitale ci vado giù pesante e poi mi ritrovo centinaia di scatti sepolti nella cartella immagini col rischio di dimenticarmene. Impossibile stampare tutto, non basterebbero gli scaffali della Biblioteca Nazionale e tutte le cornici dell’Ikea messi insieme. Ma neanche lasciarli lì a prender polvere, quella virtuale of course, nella memoria del mio pc. Così mi son data l’obiettivo di creare dei montaggi da riversare su dvd, piazzarli a due centimetri dalla nuova tv che impera in soggiorno e vedere se durante i bui pomeriggi invernali a qualcuno verrà la voglia di riguardare un po’ di foto. Sul galletto ho qualche serio dubbio, che oltre ad essere refrattario allo scatto lo è anche allo sfogliare gli albums, siano essi su carta o su schermo, ma sulla pulcina nutro invece forti speranze, visto che da qualche tempo si diverte un mondo a guardare le foto di quando eravamo giovani e belli e, con la spietata sincerità dei bambini, ce lo fa pure notare. In ogni caso, se il progetto proseguirà a questi ritmi, si tratterà dei bui pomeriggi invernali del duemiladodici, ma non si dice che chi ben comincia è a metà dell’opera? Così, mentre visionavo foto, rinominavo e creavo sottocartelle, mi sono innamorata di alcune foto un po’ particolari, certamente non da cornice e forse neanche da montaggio, ma che non voglio rimangano sepolte dentro al computer. Sono momenti speciali, fermati alla velocità di un click, mentre il vento trasportava l’odore della salsedine, i rumori del bosco o una risata di mia figlia. Rappresentano la nostra estate, ed in ognuno vi è racchiuso un pezzetto di noi. Lasciarli al buio di uno schermo spento mi dispiaceva troppo, così ho deciso di metterli alla luce qui.

lunedì 14 settembre 2009

Back to school

Primo giorno di baraonda ufficiale, di quella che ne parla anche il telegiornale, snocciolando numeri e statistiche, quanti nuovi iscritti in prima, quanti ripetenti, prezzi del corredo scolastico, la storia del maestro unico e il grembiule obbligatorio. Insomma, tutto l’ambaradan al gran completo. E noi, puntuali all’appello, anche quest’anno eravamo lì, nel vocìo del cortile pieno zeppo di bambini, famiglie e macchine fotografiche, andando dai ciao, come stai, che avete fatto di bello quest’estate agli ho saputo che la maestra d’inglese è cambiata ma la nuova pare sia più brava, sussurrato a mezza voce dalla mamma di G che, non si sa come, sa sempre tutto. Di chiacchiere da fare ce ne sarebbero state per delle ore, ma il trillo della campanella ha ricordato a tutti il motivo per cui eravamo nuovamente lì, baciando i figli che s’incamminavano verso le scale trascinando zaini da scoliosi e cercando di nascondere alla bell’e meglio la lacrimuccia che cercava di farsi largo tra le ciglia. Avevo deciso di lasciarla salire da sola, ma poi, ben consapevole del fatto che l’anno prossimo le mamme saranno off limits non soltanto in classe ma sicuramente anche nel cortile delle scuole medie, ho sapientemente eluso la sorveglianza del preside che piazzatosi a gambe larghe a metà scale rimandava indietro i genitori con uno sguardo da ufficiale della Gestapo, fingendo di uscire e rientrando invece subito dopo dalla porta che conduce all’altra rampa di scale, che l’averci passato già sette anni in quella scuola, tra materna ed elementari, qualcosa vorrà pur dire, perlomeno in fatto di scorciatoie e passaggi segreti, e sono salita in classe. La scusa ufficiale era vedere l’aula nuova e fare un saluto alla maestra, rimasta unica, ahimè, come voluto dalla nostra ministra, e vedere accanto a chi si sarà seduta la picci e chissà in che fila è e se chiacchiera di già, ma in realtà l’ho voluta semplicemente guardare, seduta al banco, qualsiasi esso fosse, impettita ed emozionata col suo grembiulino blu e stamparmi il suo visino nel cuore. Per fortuna non sono stata la sola ad avere l’idea di ignorare le direttive del preside e nel corridoio c’erano altri genitori, così mi sono mimetizzata, ho scambiato due parole con la maestra e mi sono affacciata un secondo alla porta della classe, mentre cercavo di mascherare con un sorriso l’emozione che mi assaliva, cogliendo con un unico sguardo tutti i particolari: i fiori di carta colorati appesi alle pareti, le tende bianche, lo scaffale pronto ad accogliere libri e lavoretti. L’ho già detto, questo anno scolastico mi emozionerà in particolar modo, e non solo perché sono una piagnona. Il fatto è che i figli crescono. E il problema è che io non sono mica tanto preparata.

sabato 12 settembre 2009

Quarantaquattro (gatti)

Eccoli qua, ci sono proprio tutti. Stamattina appena mi sono alzata li ho trovati tutti lì ad aspettarmi ai piedi del letto, acciambellati, addormentati, intenti a fare il pane o a fare le fusa, ma erano comunque tutti lì, tutti e quarantaquattro, che quando ho pensato a questo numero è stato talmente automatico ricordarmi della canzoncina dello Zecchino d’Oro della mia infanzia che ho deciso che oggi, così, tanto per cambiare, compio i gatti anziché gli anni. Anche perché un po’ gatta in effetti a quest’età credo di esserlo diventata davvero, un filo più sorniona, più indipendente e pure un pochino più furba, finalmente direi, che per i bischeri ‘un c’è paradiso come si dice da queste parti. Insomma, nata indubbiamente cane, fiduciosa e fin troppo bonacciona, ma diventata con il tempo, con l’età e con le mille musate battute a destra e manca, anche un po’ più scaltra. Beh, perlomeno lo spero. Così, stamani me li son trovati tutti lì intorno questi quarantaquattro gatti e li ho ascoltati tutti, che ognuno aveva qualcosa da raccontarmi, con un sorriso, una smorfia o una lacrima. Ho ascoltato il gatto dei calzettoni bianchi traforati e i sandalini Giglio, mentre svelta pedalavo sul viale con la mia biciclettina arancione e mio nonno mi aspettava su una panchina leggendo il giornale. Son stata a sentire il gatto di quel giorno buio in cui i miei si separarono e non capendo bene cosa mi stesse succedendo di lì a poco mi ritrovai a far da madre alla mia stessa mamma. C’era quel micio che mi diceva di quel cucciolino color del miele che una mattina d’inverno infilai nella tasca del mio cappottino bianco per dare l’inizio ad una meravigliosa storia d’amore. Ho riso ascoltando il gatto del compito di matematica passatomi dall’amica secchiona all’ultimo secondo e copiato così velocemente da non accorgermi di star copiando anche delle incognite x y in una prova con solo a b, il che la dice lunga sulla mia passione per i numeri. Ho chiuso gli occhi mentre parlava il gatto del mio primo bacio, ricordando come al posto delle tanto decantate campane io sentissi solo il galoppo impazzito del mio cuore. Il gatto del mio matrimonio mi ha fatta sorridere al ricordo di un giorno speciale programmato fin nei minimi dettagli per mesi e mesi, consumatosi poi in troppo poco tempo, lasciandomi con un abito da riporre per sempre e un po’ di nostalgia. Mentre il gatto del mio pancione faceva le fusa socchiudevo gli occhi al ricordo di quei calci dentro di me che mi tenevano compagnia mentre ascoltavo la ninna nanna di Jovanotti e pensavo a come sarebbe stata la mia bambina quando fosse arrivata e a quanto sia buffo il fatto che adesso sono io che molto spesso avrei voglia di prendere a calci colei che è diventata l’amore indissolubile della mia vita. Li ho ascoltati tutti, uno ad uno, e se anche qualche graffio questi gatti a volte me l’hanno dato, non ne vorrei cambiare neppure uno. Così, li tengo tutti con me, in fila per sei col resto di due, e mi auguro un buonissimo, felicissimo quarantaquattresimo gatto.

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