lunedì 25 ottobre 2010

Tutto

Lo sapevo che sarebbe stato duro, difficile, ma questo non serve a farmi stare meno male. Di un male strano, sconosciuto e nuovo, tagliente come un rasoio. Ore ad aprire cassetti e sportelli, spalancare finestre, tirare fuori roba, abiti, documenti, cianfrusaglie, occhiali rotti, con quell’odore di naftalina prepotente nel naso e la vista che si annebbia spesso, non sempre a causa della polvere. Le mani toccano tutto, veloci, rapide, analizzano e decidono all’istante, questo sì, questo no, e via in una scatola o nel sacco dell’immondizia, ma solo una parte della mia mente è lì a svolgere questo doloroso censimento. L’altro pezzo vaga per le stanze, rivede scene, riascolta la mia vocina di bambina, gli abbracci stritolanti che facevo a mia madre, i suoi pianti, le ore infinite e silenziose della mia adolescenza quando pregavo che qualcuno venisse a buttare giù a calci quella porta e mi portasse via, triste principessa solitaria rinchiusa nella torre ad aspettare un drago sputafuoco. Ogni cosa che mi passa tra le mani è un ricordo, una voce, un profumo, un momento che credevo di aver dimenticato e invece no, è sempre lì, solo un po’ impolverato. Continuo a muovermi da una stanza all’altra, efficiente, cercando di non farmi travolgere, fuggendo dalle mie emozioni, frugando tra le cose di una vita intera e sentendomi quasi inopportuna, ladra, come stessi compiendo un sacrilegio. La macchina da scrivere arancione dove mi esercitavo ad occhi chiusi la sera prima del compito in classe di dattilografia, la mia treccia bionda tagliata a cinque anni e ancora conservata dentro ad una scatolina, i miei dentini da latte, i ferri con cui mia madre preparava il mio corredino, bigliettini di auguri, vecchie sciarpe mai usate, i gialli dei ragazzi, medicine scadute e un servito da tè ancora imballato dal giorno del matrimonio, chissà se dei miei genitori o dei miei nonni, perché il servito buono era spesso troppo buono per decidersi a usarlo e finiva che non lo si usava mai. Tutto, tutto, tutto. Vorrei poter portare con me tutto, anche quella vecchia borsa dell’acqua calda di gomma rossa scura che sbuca improvvisamente dal fondo dell’armadio, consunta e imporrata, che mi riporta a quegli inverni farciti di influenze e mal di pancia, o il bollitore del latte ammaccato e scurito che conosco così bene. La scelta continua e mentre le mani impilano veloci dei piatti in un cartone so che vorrei essere in qualsiasi altro luogo ma non qui, a dover fare questo. Dannazione quanto è difficile, non sono pronta. Non si può essere pronti, non sarei potuta esserlo mai.

giovedì 21 ottobre 2010

Brave!

Sono toscana e quindi polemica, ma sono altrettanto schietta e sincera, e se è vero che mi arrabbio facilmente per le cose che non mi vanno giù, in egual misura mi entusiasmo quando mi imbatto in qualcosa di ben fatto, ed in entrambi i casi lo dico, anzi lo declamo a gran voce. Oggi ho scoperto una cosa davvero carina, che mi ha fatto brillare gli occhi come ad un bambino la mattina di Natale. Ho trovato per caso una deliziosa rivista on line, piena di ricette sfiziose, bellissime fotografie ed altre cosine decisamente interessanti, creata da alcune foodbloggers che hanno deciso di unire le forze per dar vita a questo progetto. Il tutto a portata di un semplicissimo click. Ci sono già un paio di ricettine che mi alluzzano, e un articolo su un paesino portoghese che mi ha incantato e che ho già messo nella lista dei miei must che si sta allungando all’inverosimile. Nell’attesa che esca l’edizione invernale, dovevo proprio dirlo.

martedì 19 ottobre 2010

Domande

A volte mi faccio domande. Forse sarebbe meglio non me le facessi, ma me le faccio lo stesso. Mi chiedo se le persone che progettano una certa cosa ne siano anche dei fruitori. Se quando la ideano, la immaginano e la creano, lo facciano pensando realmente allo scopo che una certa cosa deve avere, e se lo conoscono in prima persona, o se stiano solo lì con la matita in mano a disegnare a vanvera su fogli bianchi, pensando solo all’estetica, alla moda e al design, o anche no, vista l’assurdità di certi aggeggi che ogni tanto appaiono su questa Terra. Più che passa il tempo e più che mi sembra che la seconda opzione sia quella che vada per la maggiore tra questi geni della matita. Da queste parti recentemente hanno deciso di sostituire le vecchie pensiline alle fermate degli autobus con un tipo nuovo, più bello e che si integrasse meglio con il paesaggio. Bene, ho pensato. Ho anche letto che dette pensiline avrebbero avuto un’illuminazione a led a risparmio energetico per garantire la sicurezza anche di notte. Splendido, finalmente qualcosa di intelligente. Fino al momento in cui ne ho vista una, alla fine di agosto, sole rovente e temperatura intorno ai quaranta. Ferro battuto e cristallo trasparente, tettoia compresa, la pensilina brillava come un diamante. Praticamente un forno crematorio, impossibile starci sotto a meno di non volersi candidare per un collasso, la tanto agognata ombra solo un pallido ricordo e proprio nel periodo in cui i bus passano anche ogni mezz’ora. Ma che genialata. Pochi giorni fa sono capitata sotto ad un’altra di queste nuove pensiline. Pioggia battente. Il tetto stretto e obliquo era come se non ci fosse, l’acqua arrivava da tutte le parti, tanto valeva tenere l’ombrello aperto. Davvero un ottimo investimento per la città, complimenti. Lo so, dovrei smettere di farmi domande, ma non ci riesco, e scommetto tutte le penne che chi l’ha progettata non ha mai aspettato un autobus in vita sua.

venerdì 15 ottobre 2010

T.G.I.F.

Finalmente questa settimana è finita, non ne potevo davvero più. La durata di una settimana dovrebbe essere sempre la stessa, ma poi non è mica sempre vero. Questi sette giorni sono stati lunghi, tosti, pieni di grane lavorative che metà sarebbero bastate e conditi anche con qualche bega familiare, pesanti come piombo. E le lancette dell’orologio sembravano incollate. Niente a che vedere con la rapidità con cui trascorrono gli stessi sette giorni quando sono in vacanza, che il giorno di tornare a casa mi sembra ancora di essere appena arrivata. Forse dovrei fare un po’ di training autogeno per vedere di convincermi di essere in vacanza quando sono sepolta dalle scartoffie in ufficio e di lavorare spalmandomi di crema abbronzante distesa su una spiaggia, ma non credo che funzionerebbe. Credo siano queste giornate che si accorciano che mi incupiscono un po’, il cambio degli armadi che incombe, il primo raffreddore della stagione e la prima assemblea di classe della scuola media di ieri sera dove mi sono sentita inevitabilmente più vecchia. Resta il fatto che finalmente si è chiusa questa settimana e guardo speranzosa al weekend che sta già facendo capolino, anche se ovviamente passerà in un lampo. Non importa, adesso è ancora venerdì pomeriggio e guai a chi me lo tocca. E come mi insegnano i miei colleghi d’oltremanica, Thanks God Is Friday.

martedì 12 ottobre 2010

Il piffero del kaiser

Cara Maria Star, spero non ti offenderai se ti chiamo col nomignolo che ti ha dato la Luciana nazionale. So che in questi giorni c’hai un po’ di beghe con gli occupandi ed i manifestandi, e se posso mi metto in coda pure io. Vedi, mia figlia ha iniziato da poco la prima media, ma non sono qui per dirti che il budget di spesa dei libri non solo è stato sforato ma è stato praticamente raddoppiato, o che la quantità di carta che ogni giorno la poveretta si deve trascinare a scuola farebbe venire la scoliosi anche a Maciste e che forse si potrebbe ipotizzare un metodo per lasciare a scuola alcuni libri, o che magari sarebbe auspicabile che ad un’insegnante di inglese venisse fatto un colloquio in lingua prima di rilasciargli la cattedra, come qualsiasi azienda seria farebbe, al di là della quantità di lauree prodotte. No, tralascio questi argomenti banali che tanto ormai sono un male comune in questo Paese e pare che dovremo rassegnarci, mannaggia a me e al giorno in cui non sono emigrata in Lapponia, e ti espongo un argomento diverso. Mi chiedo che senso abbia obbligare i ragazzini ad imparare per forza uno strumento. La musica, così come il disegno, il canto, la pittura, la danza e le arti in generale, non si possono fare entrare a forza nel dna di chicchessia. O questa dote ci accompagna dalla nascita, e molto presto si manifesterà spontaneamente, altrimenti è inutile cercare in tutti di modi di far ballare colui che è rigido come un manico di scopa o trasformare in usignoli quelli stonati come campane. E’ una sofferenza per quelli che ci provano e per i poveracci che gli stanno intorno, che mica è tanto piacevole stare ad ascoltare per ore note stridule e rabbiose che escono fuori sgraziatamente dai flauti, che di dolce purtroppo han solo il nome. Già ci ero passata io un bel po’ di anni fa da questa sgradevole esperienza che di risultati ne ha prodotti solo due: farmi odiare con tutte le forze il maledetto piffero e allontanarmi definitivamente dal mondo della musica. Credo che con mia figlia e praticamente tutti i suoi compagni di classe molto probabilmente si arriverà entro breve agli stessi risultati e, oggi come allora, questo non lo trovo affatto giusto. La musica è una cosa meravigliosa, senza la quale la vita di tutti sarebbe molto più triste e incredibilmente vuota, ma non vedo perché alle scuole medie si debba obbligatoriamente insegnare a produrla anziché dare la possibilità a chi non ama i solfeggi di imparare invece ad ascoltarla, a capirla, a chiudere gli occhi e sentirla scorrere sulla propria pelle. Studiare la storia dei maestri del jazz, capire la bellezza di un’opera, battere il tempo di un ritmo tribale, ascoltare ad occhi chiusi un notturno di Chopin per poi dire quali sono stati i pensieri che hanno attraversato la mente. Non sarebbe infinitamente più importante che i ragazzi capissero tutto questo ed altro ancora, prima di ritrovarsi automaticamente ad odiare un tristissimo flauto di plastica e pensare che musica significhi solo l’ultimo brano rap in hit parade che si sparano a palla nelle orecchie dagli auricolari dei loro mp3?

giovedì 7 ottobre 2010

Quando non esiste un perché

Non so se scrivere o lasciare dentro queste parole. Ma è da stamattina che ascolto e rabbrividisco, le parole si formano nella mia mente incredula e addolorata e non posso trattenerle oltre. Anche se lo scriverle forse le fa sembrare un po’ più vere. Sì, il nero su bianco fa sempre un po’ impressione, ma purtroppo quanto succede in questo mondo cattivo non si cancella nascondendo delle parole in una bocca chiusa. Sono parole frammiste a pensieri, a sensazioni, a tanto dolore e ad una fila interminabile di perché, che restano crudi e senza risposta. Dei tristi e inutili perché, lasciati lì alla polvere e al tempo. Passeranno le stagioni, gli anni, voli di mongolfiere e temporali, crisi di governo e raffreddori, ma quei perché resteranno immutati e identici, senza risposta, sempre, perché risposta non c’è. Non c’è un perché alla cattiveria dell’uomo, a queste atrocità che lasciano senza fiato, ai sorrisi di bambini spenti per sempre senza un briciolo di umanità, con la stessa noncuranza di un mozzicone spento sul marciapiede col tacco di una scarpa. Forse il male non ha mai misura, ma non riesco a non inorridire un po’ di più quando si tratta di piccole vittime innocenti, preda della crudeltà e della follia di coloro che invece dovrebbero proteggerli. Mi chiedo dove siano gli altri, quelli che vivono intorno a questi bambini, come fanno a non vedere niente, a non capire, a non rendersi conto del lupo in agguato. Anche io non mi accorgerei di niente? Mi chiedo questo, incessantemente. E mi chiedo cosa faccia di me una madre migliore o peggiore di quella che adesso sta piangendo la morte di sua figlia.

sabato 2 ottobre 2010

Silent saturday

Che strano il sabato, adesso. Ero abituata a dormire un po’ di più, con la picci che si intrufolava nel lettone e con la quale passavamo ancora un po’ di dormiveglia, lento, caldo e arruffato, in attesa di dare inizio alla giornata con tutta la calma del mondo. Con l’inizio delle medie la musica è drasticamente cambiata, si va a scuola anche di sabato e pertanto la sveglia sul mio comodino suona impietosamente intorno alle sette a prescindere dal giorno della settimana. In fondo non dovrebbe essere una mattina diversa dalle altre, ci si butta di sotto con l’occhio abbottonato, si prepara un caffè nella penombra, si comincia a ricordare il proprio nome e si procede poi con tutto il resto, compresi i berci alla pulcina che rischia sempre di riaddormentarsi a faccia in giù nella sua tazza di latte. Invece il mio organismo sa perfettamente che è sabato, che avrei tutto il sacrosanto diritto di stare a poltrire un po’ di più, e pertanto recalcitra su qualunque cosa, come un mulo che non ne voglia sapere di seguire gli ordini del proprio padrone. Dicono che in questi casi faccia miracoli la vecchia consuetudine del bastone e della carota. Vabbè, per il primo direi che sia bastato guardare la montagna altissima di panni da stirare che mi aspettava al varco ed ho iniziato a tremare come una foglia, per la seconda diciamo che mi sono indorata la pillola con una colazione un po’ più ricca, tipo buffet di un cinque stelle, marmellata, miele e succo di arancia compresi. Nel frattempo il galletto ha indossato l’alta uniforme, si è munito di cavatappi e termometri, e si è prontamente dileguato alla volta del centro storico, dove trascorrerà la giornata a stappare bottiglie e decantare le lodi dei vini presenti nella sua postazione, una delle tante del Wine Town Firenze, la manifestazione enologica che da un paio di giorni ha invaso la città. Esco dalla doccia e trovo la casa vuota e silenziosa, non ci sono abituata a un sabato così. In attesa di tuffarmi nella kermesse di carrelli e liste della spesa in quel luogo di perdizione chiamato Esselunga, metterò su un cd. Perlomeno non ci sarà nessuno a dirmi di abbassare il volume.

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