mercoledì 29 luglio 2009

Di madre in figlia

Normalmente nelle famiglie si tramandano le ricette dei manicaretti, le lenzuola ricamate a mano che facevano parte del corredo della bisnonna, ancora profumate di spigo e di buio, la passione per i vini d'annata o la difficile arte della potatura. Tutte cose preziose, quasi nobili, da potersene vantare un domani con lieve orgoglio e un filo di sussiego, sussurrando a chi domanda me lo ha insegnato mia madre. Quella che invece sto tramandando io in questi giorni alla pulcina è una cosa molto poco poetica ma divertente assai, quello sì, che tra tutte e due sembriamo drogate e son due giorni che non riusciamo a staccare le mani dall'ago e giù a infilar perline, scegliere le tonalità e comporre nomi, cuori e ghirigori come in un cruciverba senza fine. Quando il galletto mi ha fatto vedere il telaio che aveva preparato seguendo le mie precisissime istruzioni, assemblando una semplice asse con una manciata di chiodi, niente di più per la verità, l'ho trovato identico al mio di trent'anni e rotti fa, e sono stata travolta da un potentissimo flashback, rivedendomi lì seduta al tavolo di cucina, a infilare, decidere e comporre. Con le bambine del palazzo accanto avevamo preso il via neanche fossimo state a cottimo e dopo aver riempito tutti i membri delle rispettive famiglie di braccialetti, decidemmo di fare il salto e buttarci nel commercio, allestendo un banchetto in strada con tanto di insegna scritta a penna biro e ordinazioni in quantità che fioccavano da passanti e negozianti, che se non ricordo male non riuscimmo ad evaderne nemmeno la metà. E adesso, promessa mantenuta, sono qui che tramando l’arte alla pulcina, che felicissima adora le creazioni che sta facendo, anche perché il sapore, come tutte le cose genuine, non è neppure paragonabile ai giochini di adesso. Per ora quindi, telaio batte scubidù due a zero. Poi, passata la novità, anche questo diventerà un passatempo lentamente dimenticato ma, come dice il saggio, impara l'arte e mettila da parte. E un domani, chissà, forse anche la pulcina tramanderà.

sabato 25 luglio 2009

Ancora ciliegie

Dopo un periodo senza precipitazioni, è arrivata un’altra grandinata di splendide ciliegie sul pollaio e, in barba alla colonnina di mercurio impazzita nelle strade infuocate, che per fortuna la mia casa è un’oasi di frescura, ho acceso il forno ed ho sperimentato la ricetta della torta di ciliegie e mandorle che Becca54 mi aveva gentilmente lasciato nei commenti al mio strudel di ciliegie, apportandovi qualche leggera variazione, vuoi perché la farina di mandorle era introvabile e vuoi perché non posso resistere alle nevicate di zucchero a velo. Il risultato è stato una torta friabile, non molto dolce come piacciono al Galletto, che ogni tanto devo far contento pure lui, ottima a colazione insieme al caffè. Semplicemente deliziosa.

Torta di ciliegie e mandorle

Ingredienti:

40 ciliegie nere
150 gr. farina
100 gr. di granella di mandorle
80 gr. di zucchero
80 gr. di burro morbido
2 uova
mezza bustina di lievito
mezzo cucchiaino di cannella in polvere
1 pizzico di sale
zucchero a velo

Preparazione:

Lavare le ciliegie, privarle dei gambi e snocciolarle. In una ciotola lavorare le uova con lo zucchero. Aggiungere la farina, il lievito, il burro, la cannella e un pizzico di sale ed amalgamare bene il tutto. Versare la granella di mandorle e incorporarla all’impasto. Versare l’impasto in una tortiera di diametro cm. 24, unta con burro e infarinata. Affondare nell’impasto le ciliegie e cuocere in forno caldo a 180° per circa 35 minuti. Lasciar raffreddare a temperatura ambiente e spolverizzare con zucchero a velo.

giovedì 23 luglio 2009

Ten years (ago)

Ancora una volta sei partita con gli scout nella settimana del tuo compleanno, e anche stavolta ci siamo dovuti accontentare di farti gli auguri via cavo, cosa che di per se è comunque è un gran privilegio, visto che i genitori non possono telefonare ai lupetti durante il campo fatta eccezione per i compleanni e, guarda un po’, tu compi gli anni proprio oggi. E che anni poi. Dieci anni belli tondi, tesoro mio. Dieci. Che effetto che mi fa dirlo, non so, è come se questa cifra tonda fosse più importante, in qualche modo più significativa dei nove o degli undici, chissà mai perché gli anni con lo zero è come se fossero maiuscoli, scritti in rosso, dei traguardi speciali. Che idiozia poi, che ogni età è unica, speciale e maiuscola, da vivere e assaporare ad ogni ora, minuto e momento, che siano dieci, due, trentuno o sessantasei. E mentre son qui a dissertare di età e cifre tonde, scribacchiando veloce sul quadernone tenuto tutto storto sul lenzuolo, che il computer stasera è dominio di tuo padre, la mente ritorna a quel ventidue Luglio di dieci anni fa, che, ne sono sicura, per tutta la vita continuerà a sembrarmi ieri. Era caldo, un solleone accecante nel cielo azzurro, stranamente senza afa, proprio come oggi. Eri prevista arrivare verso i primi di Agosto, una leoncina a tutti gli effetti, chi mai avrebbe potuto immaginare che avresti invece giocato di anticipo, facendoti beffe di noi e dello zodiaco riuscendo addirittura ad atterrare nel segno precedente, anche se per poco meno di due ore, rendendoti speciale, una cuspide. Così, quando di mattina con un ultimo calcio ben assestato riuscisti a rompere il sacco che ti conteneva ed io iniziai a gocciolare come un rubinetto chiuso male, fui colta alla sprovvista, sorpresa ed anche un po’ intimorita, non potevo credere che il momento del nostro incontro fosse già arrivato. Io e tuo padre dovevamo andare a cena fuori per il nostro quarto anniversario, che cadeva proprio il giorno dopo. Avevo pensato di comprare un’altra coppia di asciugamani per ricamarne il bordo a punto in croce con fiori e animaletti per te. La famosa valigetta da portare in ospedale non era ancora pronta. Manco a dirlo, la nostra cena ovviamente saltò, la seconda coppia di asciugamani non fu acquistata e la valigetta fu preparata di corsa. Con l’aiuto dell’ostetrica riuscii a fare tutto il travaglio a casa, tra letto, bagno e divano, oscillando da momenti di lucidità a momenti di totale annebbiamento in cui mi pareva di vivere in un sogno. Ricordo che tuo padre, per cercare di distrarsi e combattere l’ansia che ovviamente negava di avere, passò quasi tutto il pomeriggio in giardino ad annaffiare, affacciandosi ogni tanto per sentire come andava e venendo puntualmente rimandato fuori dall’ostetrica che, strizzandomi l’occhio, ad un certo punto mi disse che i padri fanno certamente comodo in seguito ma che per il momento ne potevamo tranquillamente fare a meno. Così, fra una contrazione e l’altra, io e lei parlammo di tante cose in complicità tutta femminile, ridendo come vecchie amiche. Verso sera la porticina dalla quale saresti passata era già piuttosto aperta e ci dirigemmo in auto verso l’ospedale, con tuo padre che stava attentissimo ad evitare frenate, sobbalzi e cunette, mentre a me non me ne sarebbe potuto importare di meno nemmeno se mi avesse portata su una moto da cross, tutta concentrata a soffiare come un mantice come ero. Andammo subito in sala parto e lì, davvero, benché la questione fortunatamente si risolse in meno di due ore, ho sempre pensato che mi avrebbero potuta mettere a gambe all’aria in Piazza del Duomo e non avrei fatto una piega. La concentrazione di una mamma in quel momento è tutta esclusivamente rivolta a far nascere il suo bambino. Tutto il resto, l’andirivieni dell’ostetrica, il ginecologo di turno, l’infermiere che si mise a guardare lo spettacolo a cavalcioni di una sedia come se stesse guardando la finale della Coppa dei Campioni, tutto era di nessuna importanza. C’ero solo io che spingevo da fuori, tu che spingevi da dentro e la mano di tuo padre che stringeva la mia. Poi, ad un tratto, sentii una specie di swoosh, come quando un pesce bagnato ti sguscia via dalle dita, ed entrasti nel mondo. Ci guardammo stupite, incredule entrambe che fosse già tutto finito, anche se in realtà era solo il nostro bellissimo inizio. Eri calda, rosa, grinzosa, un ragnetto dolcissimo che non smettevo di guardare, di toccare, di annusare, osservando quei minuscoli piedini che per tanto tempo mi avevano tenuto compagnia con valzer e tanghi conosciuti solo a noi due. Mi stringevi il dito nel pugnetto con una forza inaspettata, come ad ancorarti ancora a me nonostante il taglio del cordone. Eccoti lì, eri arrivata, eri bellissima, eri mia. In quel momento nacque un amore folle, unico, incredibile, immenso, di cui nessuno può immaginarne l’esistenza finché non si diventa madre. Un amore per sempre. Per questi tuoi, nostri, meravigliosi dieci anni e per mille altri ancora.

lunedì 20 luglio 2009

Giorni di montagna

Alla fine il nostro brindisi c’è stato davvero. Otto giorni di montagna, che per quanto sono state piene e rilassanti le giornate lassù è come se la nostra fuga fosse durata il doppio. Il pollaio trasferito in una casina fantastica sulla cima del monte in mezzo a scoiattoli e falchi, che guai a dimenticarsi di comprare il pane o il latte perché chi mai avrebbe avuto la voglia di sciropparsi un’altra volta tutti quei tornanti circondati di prati in verticale, talmente ritti che avrei avuto seri problemi soltanto a rimanerci in piedi, mentre i serafici montanari riuscivano persino a falciarci l’erba a mano, ma del resto cosa si può pretendere da un paio di piedi abituati ai piatti marciapiedi di città. Un balcone di legno e gerani, che affacciandosi si guardava il paesino giù nella valle come da un aereo, mentre tutt’intorno le montagne si prendevano per mano come in un girotondo e mi si allargava il cuore solo a guardarle, incantata a scrutare le tonalità delle rocce, un po’ grigie, un po’ rosa, un po’ viola, fino alla massa di panna bianca della Marmolada. Sentieri che ci hanno accolto al mattino per accompagnarci fino alla sera, un passo dietro l’altro, parlando poco e guardando tanto, attraversando boschi fitti e profumati, pendii interamente ricoperti di rododendri fucsia e immensi altopiani cosparsi di fiori a ciuffi, a chiazze, a manciate, a bizzeffe, non c’è una parola per dire quanti erano, che non ne avevo mai visti così tanti tutti insieme in vita mia, dai colori incredibilmente sfacciati e struggenti. Prati infiniti, a rincorrersi incessantemente, così verdi da far quasi male agli occhi, come se nottetempo la mano di un gigante li avesse colorati con l’evidenziatore, quello verdone che la picci usa per le sottolineature più importanti, da distendersi sopra come su un tappeto, ascoltando il ronzio incessante delle api far da colonna sonora al nostro pranzo fatto di panini, gambe stanche e buonumore. Baite e malghe come uscite da un libro di fiabe, pareti di legno scolpito e davanzali straboccanti di fiori, capre, galline, conigli e un puledrino ad accompagnarci al nostro tavolo, per gustare un semplice tagliere di legno ricoperto di speck e la polenta al formaggio più buona del mondo. Le spilline dei rifugi che la pulcina ha collezionato, ma solo di quelli che si raggiungono con i piedi, la fatica e il sudore, che quelli che ci arriva l’ovovia proprio davanti non valgono mica, e che gioia vedere nei suoi occhi la soddisfazione con cui se li è guadagnati, altro che collezioni di stickers e figurine dell’edicolante. Le cene tranquille, le felpe e le dormite nel piumone, che faceva così strano proprio nei giorni in cui giù a casa c’era un caldo spropositato e cercavo di fare scorta di quel frescolino che mi avvolgeva le braccia quando andavo a scuotere la tovaglia nel buio, lasciando un po’ di briciole per gli uccellini che di lì a poche ore vi avrebbero allegramente banchettato, sovrastata da una cupola di stelle che sembrava di poter toccare solo allungando una mano. Colazioni senza fretta né orologio, da cucinare e apparecchiare come se fosse un pranzo, uova, latte, biscotti, Nutella, pane, yogurt e quel che ci va ci vuole, mangiando con calma mentre si decide la meta della giornata studiando le mappe, proponendo itinerari e disquisendo di dislivelli e altitudini, mentre il solito caffè trangugiato in piedi in cinque secondi netti mi sembrava lontano mille miglia. Le risate, le capriole della pulcina, le lamentele del galletto che non ci si può fermare ogni due minuti per fare una foto, gli zaini, gli sbadigli, la memoria volutamente lasciata a casa, non so più chi sono, cosa faccio, so solo che sono felice. E poi lui, il sole, il protagonista indiscusso, che non si è fatto desiderare bissando lo spettacolo tutti i giorni, tranne l’ultimo, nel quale per non peccare di protagonismo ha ceduto il passo alla pioggia che ha tamburellato incessante mentre preparavamo i bagagli e che ci ha salutati trasformandosi in neve proprio mentre partivamo. Otto giorni di pace, di piccole semplici perfette felicità. Otto giorni di noi. Che mi hanno insegnato una volta di più come sia importante ogni tanto staccare la spina per ritrovarsi. E che mi hanno anche insegnato che non bisogna mai fidarsi delle previsioni meteo a lunga scadenza. Che tanto la montagna fa quel che le pare.

venerdì 10 luglio 2009

Ciak, si gira

Che buffo però. E’ mica roba da tutti i giorni uscire di casa, dal solito portone, sul solito viale, tra le solite auto e davanti al solito parco, e ritrovarsi in un set cinematografico, che c’è mancato poco diventassi una comparsa senza accorgermene. Non avrei mai pensato che quest’angolo di città, tranquillo e praticamente mai alla ribalta, fatto di abitazioni e giardini, negozi sparsi, fermate d’autobus e passeggini a raffica, potesse mai interessare a qualcuno per girarci un film. Mai dire mai. In effetti non avevo fatto i conti con il regista di casa, quello che in questa città sembra a tutti il vicino di casa, il figlio, il fratello, lo zio o l’ex compagno di scuola, che quando lo vedi non ti viene certamente la scossa che ti procurerebbe un incontro con George Clooney, ma che ti fa venire una voglia irrefrenabile di dargli del tu, sorridergli e dirgli che bravo che sei, per quanto ci fai ridere con le tue storie, che a ben guardare sono davvero le storie di tutti da queste parti, e fa così bene riuscire a ridere di noi stessi, dei nostri difetti e delle nostre debolezze. Così, a sorpresa, la nostra strada si è trasformata in un set per le riprese del suo nuovo film in uscita a Natale e io e la pulcina abbiamo tradito asse da stiro l’una e compiti per le vacanze l’altra, per regalarci un paio d’ore di full immersion nell’Hollywood de’noantri, intrufolandosi nei luoghi clou e assistendo a quello che in fin dei conti è il vero spettacolo del cinema, che non è quello che viene in seguito proiettato sullo schermo della sala. Dozzine di tecnici e assistenti che andavano in su e in giù frenetici ma concentratissimi, centinaia di metri di cavo srotolato da enormi tir pieni di ogni cosa, riflettori, ombrelloni, cineprese dappertutto, truccatori sempre pronti al ritocco e poi, naturalmente, le frasi magiche che, caspiterina, le dicono davvero, gridando in un megafono e battendo il ciak di legno davanti all’occhio della cinepresa, motore, azione, ciak, si gira. Emozionante, divertente, istruttivo, per me ma soprattutto per la pulcina che guardava ad occhi sbarrati, incuriosita e incredula di come per girare una scena che una volta montata durerà sì e no quindici secondi, in realtà ci voglia tutto quel tempo, tutta quella gente, tutto quel ripetere gli stessi movimenti, che ai tuoi occhi profani sembrano sempre identici ma agli occhi del regista che la controlla subito dopo sul monitor evidentemente fanno la sua bella differenza. Arriva la protagonista femminile e la folla si zittisce di colpo. Come da copione, la lei dei film di Pieraccioni non può essere che bellissima, anche se stavolta lascia ancora più a bocca aperta perché sembra davvero che la vera Marilyn sia tornata dal passato, tanto le assomiglia, anche se ci si accorge subito che il merito va anche agli svariati chili di trucco e parrucco che da vicino si notano eccome. Poi c’è il Ceccherini, con un inedito paio di baffetti, che come al solito fa un po’ il bischero, come si dice qui, con qualche parolaccia e qualche risata sgangherata. E poi lui, che oltre ad essere regista è naturalmente anche attore, con un completino blu tutto stazzonato, barba lunga e capelli scapigliati ad arte. Serio, attentissimo, ma pronto al sorriso con tutti, come quando la picci è partita in quarta con penna e taccuino ed è andata a cercarlo nella zona off-limits del set dove lui, seduto su un’immancabile sedia da regista, ovvio, nonostante sia stato da lei interrotto mentre stava riflettendo su chissà cosa, molto amabilmente le ha fatto comunque l’autografo con tanto di dedica e cuoricino. La mattina dopo, quando sono uscita di casa, era tutto sparito. I soliti joggers sulla ciclabile, qualche passante, l’edicola al solito posto. Di tutto quel bailamme non v’era più traccia. Se non fosse stato per le foto che avevo fatto, avrei pensato di aver semplicemente sognato.

martedì 7 luglio 2009

Di guerra e di pace

E' come se avessimo perso le chiavi. Ognuna chiusa dietro alla propria porta, barricata dietro ai propri convincimenti, a non schiodarsi di un millimetro per venirsi incontro, per cercare di capire che l'altro, sì, forse può avere anche ragione. E l'altro è tua madre, santa pazienza, che forse, dall'alto dei suoi anta e passa anni e tanta vita e tanti sbagli e tante incazzature, forse, dicevo, forse una qualche ragione ce la può anche avere. A dirti cosa è meglio fare, a suggerirti la via più dritta, a consigliarti come solo una mamma può fare. E invece tu, fatta di ferro, che anzi a guardar bene credo sia uranio o addirittura plutonio, declami a gran voce il tuo mi spezzo ma non mi piego, con la brace negli occhi e il furore nella lingua, e così invece di tacere, scatta la valanga di risposte, di quelle taglienti e biforcute che non posso fingere di non sentire, anche se molte volte trattengo il fiato e lo faccio lo stesso. E poi il caldo, la stanchezza che ci sfinisce entrambe e ci fa indossare il nervosismo come se fosse una t-shirt, e il risultato finale non può essere che l'ennesima battaglia, con lacrime e bronci, scuse e perdoni, abbracci e carezze. Per poi ricominciare puntualmente dieci minuti dopo. Basta, amore mio, facciamo una tregua, un armistizio, una pace che duri un po' di più. Mordiamoci la lingua prima di ribattere, tu cerca di pensare prima di fare, che il cervello te l'ho fatto proprio bene e quando vuoi lo sai far funzionare alla perfezione, e io cercherò di contare fino a cento prima di dar fuoco alla miccia. Dai, possiamo farcela a ritrovar le chiavi.

lunedì 6 luglio 2009

Voglia zero

Voglia di zero, di nulla, di niente. L'afa mi abbatte, implodo come un ecomostro da buttar giù, e son qui accartocciata su me stessa senza stimoli alcuni, gli occhi più lessi di quelli di un pesce e nessunissima energia. Della voglia di lavorare è meglio non parlare, quella è proprio esaurita, partita, andata. Il led delle mie batterie lampeggia rosso a tutto spiano e se non trovo il modo di ricaricarle la vedo dura con una settimana come quella che mi aspetta. Mentre scrivo sta infuriando il temporale e, oltre a qualche pensiero ansioso in direzione della pulcina che proprio stamani sta facendo uno stage di canoa sul fiume cittadino, che già stavo in pensiero all'idea di un tuffo in quelle acque luride e ora mi si aggiunge anche la preoccupazione per i fulmini, che è cosa nota il loro amore sviscerato per l'acqua, riesco solo a pensare a come starei bene ad ascoltare il brontolio dei tuoni dalla mia poltrona preferita. Anche la mia adorata cialda stamani non è riuscita a dare il risultato sperato. Forse è una questione di temperatura, troppo simile a quella esterna, ci vorrebbe un bello sbalzo termico, di quelli che ti scuotono fin nelle fondamenta, che a suon di brividi metterebbe in fuga questa odiosa letargia fuori stagione. Potrei ricorrere a quel beverone miracoloso che ho scoperto pochi giorni fa in spiaggia, e non sapendo quale versione scegliere, espresso, cappuccino o mocaccino, che sono da libidine tutte e tre, mi affiderei all'ambarabàciccìccoccò della mia infanzia e qualsiasi risultato andrebbe assolutamente bene. Già, ma dove lo trovo qui, che anche a ben cercare al massimo posso trovare un ghiacciolo? Voglia zero, caffè zero. Appunto.

giovedì 2 luglio 2009

Cin cin

Abbiamo deciso di festeggiare fuggendo. Un brindisi sarebbe stato un po' banale in una famiglia dove il Galletto stappa, rotea, annusa e degusta una sera sì e l'altra pure, ma bisognava pure festeggiare in qualche modo questo suo essere divenuto ufficialmente un sommelier. Esame di stato tosto, ma superato brillantemente, Galletto felice ed io forse più di lui, perché non lo so mica se avrei sopportato altri sei mesi come quelli appena conclusisi. Così, mi ritrovo accanto un sommelier di quelli veri, con tanto di tazzina argentea attaccata al collo, che in realtà si chiama molto più nobilmente taste-vin anche se per me resta una tazzina, e un invito per una giornata di primo autunno da trascorrere in una famosissima azienda vinicola dove avverrà l'incoronazione. Mica poco per una gallina praticamente astemia che ancora non si è arresa. Comunque, dato che a parte questa buona novella il resto del mare resta grigio e cosparso di brutte notizie, lì per lì abbiamo pensato che alla fine ci fosse poco da festeggiare. Poi però ci siamo guardati negli occhi e li abbiamo trovati stanchi, dopo tanti mesi di lavoro e corse a destra e a manca, appannati, da preoccupazioni più vicine e più lontane, spenti, dal caldo che avanza e da una casa che non avanza per niente, e ci siamo detti che invece meritava festeggiare, eccome. Meritava festeggiare noi stessi. Una specie di investimento sulla salute, soprattutto su quella mentale. L'agenzia di viaggi ha quindi riaperto i battenti e si è messa al lavoro alacremente per cercare di trovare un piccolo luogo tranquillo che non sfori il risicato budget che abbiamo destinato ai festeggiamenti ma che riesca a regalarci qualche giorno tutto per noi e pare che a forza di navigare qualcosa di interessante sia emerso. Qualcosa da cogliere al volo, qualcosa che ci porterà in cima ad una montagna, tra boschi, prati e mucche al pascolo. A questo punto però non so se considerare irrilevante il fatto che le previsioni del tempo a lunga scadenza indichino una settimana intera di pioggia battente. Non so se ridere o piangere. Ma forse si sbagliano.

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