martedì 28 dicembre 2010

Vanity & me

Ne sono una fan e non ne faccio mistero. Mi piace, mi piace proprio parecchio. Del resto, fu un vero e proprio colpo di fulmine. Io che avevo sempre un po’ snobbato i tipi così, mi accorsi all’improvviso di lui, della sua unicità, di quella sua miscela esplosiva fatta di intelligenza, ironia, buon gusto e sensibilità, e mi ritrovai cotta a puntino in un attimo. Amore. E ricambiato per giunta. Che non esiste gratificazione più bella per un innamorato del trovare sempre sulla bocca dell’altro le parole che vogliamo sentirci dire insieme alle parole che ci sorprendono. Sempre positivamente. Allora si fanno gli occhi a cuoricino, ci si prende per mano e si procede insieme lungo la strada della vita. Così è nata e così continua la mia storia d’amore con Vanity e a volte la passione arde così forte che non riesco a non dirglielo a chiare lettere, nero su bianco. E scrivo. E Vanity, da innamorato fedele, risponde.

lunedì 27 dicembre 2010

I giorni a cavallo

Quelli tra Natale e Capodanno li ho sempre considerati quei giorni un po’ strani, non di festa ma quasi, con i bambini in vacanza e le strade senza traffico, che rendono comunque più rilassati anche quelli che continuano ad andare al lavoro. Sono i giorni dei regali da cambiare, dei veglioni da progettare, dei compiti per le vacanze da fare senza voglia alcuna e di manciate di ore strane e vuote da riempire un po’ a piacimento, anche di nulla, che per lo stress e le corse da gran premio bastano le rimanenti cinquantuno settimane dell’anno. Anche andare al lavoro stamani è stato quasi un piacere, nessuno in giro e il cielo azzurro sopra, sapere che il telefono non avrebbe squillato praticamente mai e che sarebbe stato uno di quei giorni fatti anche di chiacchiere e risate tra colleghi, tu che hai fatto, cos’hai ricevuto, qual’era il menu, anche se nella fattispecie il mio racconto è stato senza dubbio il meno avvincente, visto che narrava di una vigilia farcita di influenza che ci ha buttati giù uno dopo l’altro in un triste effetto domino accompagnato da starnuti a raffica e raucedine da primato. Ma anche se un po’ ammalazzati, ci siamo goduti ugualmente il nostro piccolo, semplice Natale. Fatto di pacchetti da incartare con la massima cura alle due del mattino ben sapendo che dopo poche ore la nostra opera d’arte sarebbe stata appallottolata e gettata al riciclo, di una torta alla ricotta fatta interamente dalla pulcina, limitandomi a dar qualche direttiva da lontano, e chiedendomi poi se un risultato così perfetto fosse da attribuire alle mani d’oro dell’autrice della ricetta, a quelle della figlia pasticcera o di entrambe le cose, delle piccole scintille di gioia che brillano nello sguardo di chi apre il regalo che sognava e che non si aspettava. Così in questi giorni non di festa ma quasi, un po’ a cavallo, per così dire, ci si crogiola tra una festa appena passata ed un’altra che sta per venire, e tutto sembra fermo, cristallizzato, in attesa. A un certo punto però dovrò smettere di stare con le mani in mano e fare. Né tirare la sfoglia per i tortellini del cenone. Né indossare l’abito di lamé per il veglione. Né fare in coro il conto alla rovescia della mezzanotte, cosa che tra l’altro non mi piace proprio. Ne farò un’altra di cose che non amo, ma mi rassegnerò volentieri.

giovedì 23 dicembre 2010

Buon Natale

Vorrei che fosse un Natale per tutti
per i belli, i buoni, anche per i brutti
che splendesse bianco di semplicità
e regalasse solo tanta onestà.
Che per i bimbi la fame fosse solo un ricordo
e l’orecchio dei re non fosse più sordo
che il colore del mondo tornasse l’azzurro
e il fragore sparisse e restasse un sussurro.
Vorrei chiudere gli occhi e respirare il Natale
trattener solo il bello e sputar tutto il male
scavar con le mani un buco profondo
e buttarci dentro tutto il brutto del mondo.
Vorrei che fosse un Natale più buono
davvero per tutti e senza alcun tuono
allungo una mano e ti invio una carezza
e un piccolo augurio di infinita dolcezza.

venerdì 17 dicembre 2010

La nevicata del diciassette

Ancora non mi era mai successo, ma pare che per tutto ci sia una prima volta. E così mi ritrovo alla sera del diciassette dicembre con tutto, dicasi proprio tutto l’ambaradan del Natale ancora da fare. Albero, presepe, ghirlanda, biglietti, regali, pacchetti, pensierini e cavolate assortite. Tutto rigorosamente da fare. Sì, lo so che c’è anche chi si riduce sempre al ventiquattro e qualcosa poi riesce ad imbastirlo lo stesso, ma quella non sono io. Io che devo pensare, programmare, gestire, organizzare e pianificare qualsiasi cosa, per il secondo anno di fila ho mandato a ramengo il Natale. Anzi, quest’anno quasi peggio dell’anno scorso. Perlomeno un anno fa l’albero l’avevo già fatto. Oddio, in realtà l’albero è in casa già da più di una settimana, un verdissimo abete profumato dritto e lucido come una sentinella nel suo vaso di cotto alla base delle scale che ogni mattina mi saluta con lo sguardo speranzoso di colui che spera sia finalmente arrivato il giorno in cui verrà vestito in qualche modo anziché essere lasciato lì nudo come un bruco sotto gli occhi di tutti. Insomma, tutti hanno fatto l’albero di Natale. Io no, solo l’albero. Il fatto è che il tempo non c’è, non riesco a trovarlo, e ogni giorno diventa stasera, più tardi, domani, domenica, vedremo. Stamani avevo fatto un mezzo pensierino di mettergli intanto perlomeno le lucine, e avevo già programmato i tempi col cronometro, cercando di ritagliare un dieci minuti netti tra l’uscita dall’ufficio, un avanzo di pranzo da ingurgitare in un oplà, la pulcina ballerina da andare a riprendere alle prove del suo spettacolo di Natale, panettone e pandoro da recapitare alla struttura che ospita i miei genitori e la cena natalizia aziendale. Ma poi è arrivata la neve. Tanta neve. Che ha imbiancato tutto, seppellendo macchine e biciclette, spalmando ciuffi di panna montata in ogni dove e rendendo magica questa città frenetica e spesso troppo grigia. Ogni tipo di progetto è saltato, lucine comprese, tutto da rivedere, la città si è fermata, nastri di strade bianche da percorrere con i Moon Boot nuovi che mai avrei pensato di indossare in città, fare a pallate di neve con la pulcina che ride e si tuffa nel bianco. Domani niente scuola, la neve ha portato con se anche un giorno di vacanza, e magari ce la farò anche a coprire le nudità del mio povero abete. Ma il più bello oggi è il mio giovane amico, arrivato giusto un anno fa, splendido albero di Natale improvvisato dalle lunghe dita ricamate di bianco protese verso il cielo, al centro del giardino ricoperto di zucchero filato che riluce di un bianco cangiante nella notte chiara. Bellissimo. Anche nudo e senza le lucine.

mercoledì 15 dicembre 2010

La letterona

In genere sono i bambini che scrivono a Babbo Natale, compilando quelle belle e spesso lunghissime liste di beni squisitamente materiali, che spaziano dalle biciclette alle bambole, dai videogiochi alle inossidabili Barbie per arrivare a nutriti eserciti di Gormiti e lettori Mp3 di ultima generazione. Dai bambini ci si aspetta questo, e loro chiedono senza ritegno. I desideri degli adulti sono generalmente un po’ diversi, si chiede del tempo, un po’ di tranquillità, meno smog a soffocare il mondo, più cultura per tutti e soprattutto che un colpo di bacchetta magica faccia sparire per sempre tutti i cattivi da questa terra. Naturalmente, sottoscrivo tutto. Sia il sacrosanto desiderio dei bambini di trovare sotto l’albero tanti pacchetti da scartare che quello dei loro genitori di vivere in un mondo migliore. Stamani mi sono svegliata anch’io con il desiderio di scrivere una letterina, ed è tutto il giorno che una divertente lista si va allungando nella mia mente. Il guaio è che si tratta di una lista da bambini, piena zeppa di cose tangibili, concrete, da toccare o anche solo da sognare, ma vere e reali, banali o preziose e tutte assolutamente, splendidamente materiali. C’è un paio di Interactive marroni, un timer da cucina che vien voglia di mangiarlo, dei guantini viola, un chiama angeli in argento anche se non sono incinta, un bel paio di jeans come dico io, il nuovo profumo di Zara al gelsomino bianco, la dresscode di George Gina & Lucy, l’abbonamento a Vanity Fair, una piastra per capelli che funzioni davvero sulla mia indomabile criniera, Il Cimitero di Praga di Umberto Eco, una Nespresso grigia anche se sprovvista di George, un nudo di Pomellato, La Caduta dei Giganti di Ken Follett e un weekend a Londra. Beh, credo che più che letterina la si debba chiamare letterona, ma il solo pensarla mi ha aiutato a sorridere e a rivedere un po’ di quei colori che tutti questi giorni di buio mi avevano fatto dimenticare. Non credo che niente di tutto ciò giungerà mai sotto il mio albero, ma non è questo che importa. Mi sento più terrena, più umana ed anche più bambina. E questo, invece, importa.

venerdì 10 dicembre 2010

Il suono del vuoto

Una giornata intera per svuotarla completamente, l’andirivieni incessante su e giù per le scale delle persone che se ne sono occupate, il rumore assordante del legno che si spezza, la polvere che vola dappertutto come borotalco, le finestre aperte e il traffico incessante per la strada. Li seguo con gli occhi ed è come se non li vedessi, la mia mente è altrove. Non so dove di preciso, ma non lì. In bagno si stacca una mattonella e cadendo fa uno strano crac, come se avesse amplificato l’incrinatura che si va allargando nel mio cuore. Dalle finestre entrano i raggi lunghi e pallidi del sole che sta tramontando, gli uomini finiscono di caricare i loro furgoni e se ne vanno. I miei passi rimbombano sui pavimenti in un modo del tutto nuovo, che non conoscevo. Eppure credevo di conoscere ogni suono e ogni rumore di quella casa, ma questo non lo avevo mai sentito. Ecco come risuona il vuoto in quella che è stata la mia casa per trent’anni e dei miei genitori per più di cinquanta. Cammino per le stanze deserte e mi guardo intorno stupita, ascoltando questa nuova melodia triste e soffocata. Qui c’era la mia scrivania, qui c’era la cuccia del mio cane, qui mettevo la bambole a dormire. Una lacrima scivola giù in silenzio facendo da apripista. Mi accorgo di piangere a dirotto e anche i miei singhiozzi hanno un suono diverso. Dalle finestre spalancate non entra quasi più luce. Ho freddo. Mi asciugo gli occhi, saluto un pezzo della mia vita ed esco. E’ buio.

lunedì 6 dicembre 2010

Non cucio

Ancor prima di vederla, addormentata e stanca sul ripiano basso nella penombra del ripostiglio, sapevo che l’avrei presa con me. La scatola da cucito di mia madre, vecchia e sciupacchiata, piena di ogni cosa e soprattutto di ricordi. Ci ho trovato di tutto, spolette di filo dai colori più improbabili, ruggine, verde bandiera, ciclamino e turchese Sardegna. Ditali, un uncinetto giallo limone, miriadi di bottoni, nastrini, elastici e gancetti, quelli doppi che non si usano più e che mi ricordano tanto i costumi di Carnevale e perfino una manciata di campanellini. Il vecchio puntaspilli malconcio e quello fatto con un cuscino della camera da letto della Barbie, che una vita fa avevo regalato con sussiego a mia madre come a sottolineare il fatto che ormai ero grande e con le bambole non ci giocavo più. Il metro da sarta, quello giallo da un lato e celeste dall'altro, da arrotolare e stendere e avvolgere e guardare e caspiterina che vitino di vespa. Ci sono pure un paio di quegli aggeggi che aiutano ad infilare il filo nell’ago, che pensavo non mi sarebbero serviti mai, e invece mi accorgo che purtroppo comincio ad averne bisogno anch’io e fanno proprio comodo. Non che io cucia molto, anzi diciamo proprio che cucio poco, giusto lo stretto, lo strettissimo indispensabile. I distintivi di sestiglia sulla camicia scout della pulcina, qualche paillette sui tutù in vista dei saggi di danza, un orlo scucito che penzola triste dal pantalone, un bottone ogni tanto, un pigiama col buco proprio sul sedere, che vien da chiedersene il motivo. Per il resto mi appoggio alla benevolenza di mia suocera o al negozietto di riparazioni. Sono negata, sempre stata, che ci si può fare. Da ragazzina mia madre mi iscrisse anche ad un corso di taglio e cucito. Nulla, soldi buttati via. Ma mai e poi mai avrei potuto buttar via questa vecchia scatola da cucito, con tutti i suoi fili bislacchi e i bottoni del loden verde che avevo da bambina. L’ho ripulita, ci ho aggiunto tutto ciò che possiedo in termini di attrezzatura da cucito, qualche ago, spilli, le trecce di fili multicolori, una scatolina di bottoni assortiti, l'utilissimo filo di nylon dell’Ikea e l’ho guardata. Bellissima. Non cucio, è vero, ma adesso, chissà.

mercoledì 1 dicembre 2010

Sold out

Ogni anno mi sembra che il Natale arrivi prima. Praticamente è un lampo. L’inizio della scuola, la pioggia, le foglie gialle, dolcetto o scherzetto e poi non fai in tempo a voltarti che le vetrine sono già addobbate a festa e in televisione passano gli spot dei panettoni. Ed io come al solito non sono pronta. Quest’anno meno di sempre. Sono talmente in corsa e piena di pensieri rivolti a questa necessità che incombe e di cui ancora non vedo la fine, che non ho neppure il tempo per soffermarmi sui magoni che l’arrivo del periodo natalizio normalmente mi provoca. E questo è senz’altro un bene. Però questo semplice sfiorare l’ambaradan prenatalizio che mi circonda, senza potermici soffermare a dovere, senza assaporarlo ma intuendone solo lontanamente il profumo, mi fa sentire strana, come se osservassi tutto attraverso un vetro un po’ appannato. Guardare ma non toccare. Vorrei poter pensare e pianificare tutti i piccoli grandi progetti del Natale, le sciocchezze, le frivolezze e le cose più sensate. Dal tipo di abito da far indossare all’albero quest’anno, ai regali da comprare, alla creazione di una nuova ghirlanda per la porta, ai biglietti di auguri da spedire, quelli fatti di carta e busta, che secondo me gli auguri che arrivano per posta con tanto di francobollo e scritti in bella hanno ancora tutta un’altra poesia rispetto ai freddi sms da mandare con l’invia a tutti approfittando della tariffa superscontata del gestore telefonico di turno. Eppure non ci riesco. Il calendario che urla dalla parete che siamo ufficialmente arrivati al count down dicembrino mi mette ansia, ma ciononostante non riesco a trovare un buco di spazio libero nella testa per pensare anche a questo. La platea è piena, e pure la galleria. C'è un bel cartello appiccicato con il nastro adesivo, sold out, tutto esaurito, riprovare più tardi. Speriamo perlomeno che si liberi qualche posto prima del venticinque.

lunedì 29 novembre 2010

Al tuo fianco

Lo so che è dura. Lo vedo nei tuoi occhi che si chiudono da soli dal sonno alla sera, dalla tua espressione spesso sopraffatta, dalle lacrime che ti rigano le guance quando mi abbracci e piangendo mi dici che non hai più tempo per giocare e non lo trovi giusto. E’ vero, piccola mia, non è affatto giusto. E non sai quanto questo mi faccia star male. Vedere la tua infanzia scomparire nell’arco di pochi giorni mi ha lasciata stranita, triste, addolorata. Io per prima so quanto sia duro e difficile il sacrificio che stai affrontando e ti ammiro sconfinatamene per questo, perché lo hai voluto tu, ostinatamente e tenacemente, nonostante tutti i miei dubbi e le mie perplessità. Sappi però che nella vita si può anche decidere di tornare sui propri passi se ci si accorge di avere imboccato un sentiero sbagliato. E’ una sconfitta che fa bene, che ci rende più consapevoli e maturi. Soprattutto se il tornare indietro significa decidere di voler più bene a noi stessi. In quel caso io sarò lì, vicino a te. Sappi anche che se invece deciderai di andare avanti, destinando ogni singolo minuto della tua giornata allo studio e alla danza, senza che ti resti mai il minimo tempo per giocare con le Barbie, che giacciono addormentate nel cassetto sotto al tuo letto, per spippolare col Nintendo, che ormai sarà completamente scarico, o per guardare un semplicissimo cartone, sappi che anche in questo caso io sarò comunque lì, al tuo fianco. Sono sempre stata sincera con te e, come ti brontolo quando salgono a galla le tue rispostine taglienti, allo stesso modo ti elogio quando vedo che ti impegni così, ottenendo dei risultati così belli. Ti stringo a me e ti dico brava, ma oggi ho sentito il bisogno di scriverlo, come a sottolineare questa parola o a stringerti più forte. Sei brava. Sì, lo sei. Ed io sono fiera di te.

giovedì 25 novembre 2010

A scatola chiusa

Una giornata così-così, un po’ noiosa, a tratti densa, la richiesta improvvisa di un cambiamento di orario lavorativo che mi mette subito in ansia e scatena mille pensieri che frullano come uccellini in gabbia e sbattono le ali confusi di qua e di là. Esco dall’ufficio, aria gelida, grigia, c’è quasi profumo di neve. Cammino svelta con le mani in tasca, respirando l’aria fredda come se volessi dare aria al cervello per scacciare questa ridda di emozioni pesanti. Una sosta rapida per un litro di latte e una busta di insalata. Il pit-stop al super diventa ben presto una specie di giro in giostra, mi ipnotizzo di fronte agli scaffali e il cestino che doveva contenere solo due cose nell’arco di pochi minuti strabocca. Mi dirigo alla cassa ma poi ho un ripensamento e vado alla sezione libri, negli ultimi giorni ho letto un paio di recensioni che mi hanno intrigata e chissà se ci sono già le copie. Mi blocco di fronte allo scaffale. Caspita, di questo non avevo letto un bel nulla invece. Che sorpresa. Sorrido beata, adoro questo genere di sorprese. Non leggo niente, né trama né incipit. So già che l’amerò all’istante e la mia fedeltà sarà ancora una volta ripagata dalla sua. Ne infilo a fatica una copia nel cestino strapieno e mi avvio verso casa. C’erano altri libri che aspettavano pazienti l’inaugurazione impilati sul mio comodino, ma lui passerà avanti a tutti a sirene spiegate. Mentre cammino portando le buste della spesa guardo il cielo dove nel frattempo è comparso un po’ di azzurro e sorrido. Mi accorgo che anche in testa ho finalmente un cielo limpido sgombro di pensieri.

mercoledì 17 novembre 2010

San Martino di notte

Spero di arrivare presto in fondo a questa dolorosa operazione. Non solo perché ogni cosa che guardo e che tocco mi fa rendere conto sempre un po’ di più di ciò che significa davvero, che quel pezzo di vita si sta chiudendo per sempre, non solo per i miei genitori che mi chiedono come sta andando in un modo strano, freddo, quasi distaccato, e non solo per il fatto che si trovano in un letto e su una sedia a rotelle tra le mura di quella che è diventata la loro nuova casa, ma anche perché è stato come aprire un cassetto pieno zeppo di ricordi e venirne travolta. Un cassetto che un bel po’ di tempo fa avevo accuratamente chiuso a chiave sperando di dimenticarmi della sua esistenza. Un fiume, un fiume in piena di momenti, di facce e di luoghi, maledettamente difficile da arginare adesso. Un’alluvione di emozioni che mi ha invasa senza pietà e dalla quale non riesco a liberarmi. Impantanata nei ricordi. Ho ritrovato i miei diari, credevo di averli buttati via ed invece erano ancora lì, un gruppo di quaderni in fondo ad un cassetto. Anni di inchiostro, molto del quale scolorito dalle lacrime che cadevano giù mentre scrivevo. Ho letto solo qualche frase, poi non ce l’ho fatta e li ho strappati. Stavolta li ho buttati via davvero, ma non è servito a non far riaffiorare il dolore. Così ripenso a cosa sarebbe potuto essere se. Se fossi stata più forte, più sveglia, più egoista. Se solo avessi creduto un po’ di più in me stessa. Ritrovo tutti i miei pensieri, intatti come cristalli rinchiusi per anni e riportati alla luce, forse un po’ polverosi ma perfettamente integri. Nomi e volti. Un panorama fantastico fatto di montagne aguzze nella notte blu. Il mio cuore che galoppava selvaggiamente alla vista di quel sorriso che non ho mai dimenticato. Il silenzio assordante della mia solitudine. Non riesco a smettere di guardare indietro anche se so che adesso posso soltanto guardare avanti.

San Martino di notte

Velluto nero
questo cielo di montagna
e mille stelle brillanti
come sassolini d’argento.
E questo alito di aria fredda
mani gelide e cuore caldo
guardare con occhi insaziabili
e spaziare
nell’oscurità
tra le cime buie degli abeti
e scoprire, attoniti
quel merletto di Dio
che si staglia contro il blu;
un pizzico di polvere di luna
e fiocchi di nubi solitarie.

4 agosto 1985

giovedì 11 novembre 2010

La fashion gallina

Come direbbe la mia amica delle fragole, m’è presa secca. Dalle mie parti si dice m’è presa una fittonata, ma il succo è identico. Mi sono appassionata a un giochino incredibile, tutto un mischiare di abiti e di colori, di scarpe, di zeppe e tacchi a spillo, di cappelli e borse e cose e aggeggi all’infinito e fin che se ne ha voglia. E poi, in questo luogo di perdizione mica si frigge con l’acqua, eh no, è tutta roba seria. Ti piace il tailleurino di madame Coco? Adori gli abiti in technicolor di Desigual? Spasimi per un bel paio di Louboutin? C’è tutto, cara mia, c’è tutto. Tutto lì per te a un passo di click. E hai voglia a frugare e scegliere e provare e scartare e questo sì e questo no e questo forse e questo costa una fortuna ma chemmimportammé. Ci si diverte un mare. Il fatto che poi si debbano fare i conti con il vero contenuto del proprio armadio, che nel mio caso spazia dalle bancarelle del mercato a Zara, dall’outlet a H&M e ritorno, è un’altra storia, ma come insegna la maestra che mi ha fatto scoprire detto luogo, nel frattempo avremo imparato nuovi abbinamenti, osato nuove coppie di colori o capito che quella vecchia spilla trovata per caso nel comò della nonna sta benissimo sul cappottino di maglia. Insomma, si gioca. Praticamente la versione tre punto zero di quel vecchio giochino di quando ero bambina, con le bamboline di cartoncino da ritagliare e i vestitini da provare e cambiare che stavano su ripiegando le linguette di carta, da guardare poi con occhio critico facendo un passo indietro. Mi divertivo allora, mi diverto adesso. Qui.

martedì 9 novembre 2010

Pane al pane

Eccolo lì il mio pane, bellissimo, caldo, appena sfornato. Con quell’aroma delizioso che inonda tutta la casa e che mette di buonumore all’istante, soprattutto in giornate come questa, cupe e piovose fin dal mattino, che avresti voglia di tutto tranne che di uscire di casa e dover aprire subito l’ombrello. E’ un pane semplice e fragrante, perfetto per la cena, per accompagnare due fette di salame all’ora di merenda o per spalmarci la marmellata a colazione. Non è una novità, è il pane che faccio sempre, che conosco a memoria e che piace a tutti gli abitanti del pollaio. Oggi però mi è sembrato il pane più buono di sempre, chissà perché. So solo che appena l’ho sfornato, quel velo di malinconia che mi rincorreva da stamani è magicamente scomparso.

Pane di tre farine e tanti semi

Ingredienti:
350 ml. acqua tiepida
25 gr. lievito fresco
200 gr. farina integrale
200 gr. farina Manitoba
200 gr. semola di grano duro
2 cucchiai di fiocchi d’avena
2 cucchiai di olio extravergine di oliva
mezzo cucchiaino di zucchero
2 cucchiai di semi di girasole
2 cucchiaini di semi di lino
2 cucchiaini di semi di sesamo

Preparazione:
Versare tutti gli ingredienti nella macchina del pane e cuocere con programma normale e doratura scura. Al beep di aggiunta ingredienti versare un cucchiaino di sale fino.

venerdì 5 novembre 2010

Benedetta tonsillite

Svegliarsi, deglutire e rendersi conto di avere in gola due palle da tennis non è stato proprio piacevole in effetti, soprattutto dopo essermi guardata allo specchio ed aver visto le condizioni in cui erano le suddette palle da tennis, nemmeno fossero state reduci da tutte le partite del Grande Slam; ma in un modo piuttosto perverso, visto che la febbre che sta salendo mi fa dolere tutte le ossa, tremare e battere i denti, ho come apprezzato questo dovermi improvvisamente arrendere all’evidenza, staccare la spina, salutare la curva e restarmene a casa. Malata. Sissignori, proprio malata. Vero è che non c’è nessuno che mi porta il termometro, la spremuta d’arancia o che mi rimbocca le coperte come quando ero bambina, ma questa tonsillite piovuta giù dal cielo come una meteora mi ha quasi fatto piacere. Probabilmente sono pazza, o forse sto delirando a causa della febbre, che io già a trentasette e uno mi sento male, figuriamoci adesso, ma questo senso di resa, di bandiera bianca, di mo’ so’ cavoli vostri, oggi mi conforta non poco. So già che non siederò in panchina a lungo e che tra non molto sarò ributtata in campo a giocare la partita, ma ora come ora non m’importa, avverto uno strano sorrisino di soddisfazione che mi increspa le labbra e mi accoccolo al caldo nel mio letto, in compagnia degli antibiotici, di una tazza di tè, dei libri da finire e di quelli da cominciare e del piccolo schermo piatto della tivù appeso alla parete come un quadro, da accendere alla bisogna. Magari mi addormenterò in un orario assurdo russando in modo scandaloso oppure aprirò le ante dell’armadio e da sotto le coperte inizierò a fare abbinamenti con i miei abiti, il viola col grigio, l’arancio col beige, come insegna la mia fashion guru del momento, dei cui consigli non riesco più a fare a meno ed alla quale prima o poi bisognerà che chieda di fare una lezione sugli stivali, che poi non avrò il coraggio di guardare per paura di leggere che quelli che amo tanto in questi giorni, che mi fanno un po’ corsara e un po’ Robin Hood, siano invece decisamente out. Oppure mi imbambolerò a guardare i programmi televisivi strappalacrime del primo pomeriggio. Qualsiasi cosa andrà bene. Sissignori, oggi sono malata.

giovedì 4 novembre 2010

Sciopero

La pioggia delle notti scorse ha fatto cadere miliardi di foglie, che il sole oggi fa brillare come un tappeto d’oro punteggiato di rame e rubini. Rapide folate di vento ne fanno cadere altre, gialle farfalle svolazzanti che vorticano allegre prima di posarsi un po’ dappertutto, per poi riprendere il volo e posarsi di nuovo. Cammino veloce e ascolto le foglie scricchiolare sotto ai miei passi, volteggiare leggiadre intorno alle mie caviglie. Annuso questo profumo d’autunno che sa di bagnato, di sole e di muffa, mentre i miei pensieri prendono il volo insieme alle foglie, scapestrati e alla rinfusa, senza un inizio e senza una fine. Vorrei non averne nemmeno uno, la mente libera e vuota come questo azzurro luminoso che mi sovrasta e magari dovermi arrovellare per trovare qualcosa su cui riflettere, vergognandomi anche un po’ di aver la zucca così vuota. Oggi non ho proprio voglia di questo sciame disordinato e impazzito, mi chiedo se si possa scioperare con la mente ogni tanto, sarà mica vietato, e da chi poi visto che la mente è mia e me la gestisco io. Troppe storie, troppe beghe, troppi dolori, troppe poesie da risentire, troppi panni da stirare. Guardo in su e vedo questi incredibili rami d’oro fuso protendersi verso il cielo e so che potrei stare ore a guardarli beandomi delle mille sfumature di questo fantastico autunno. Una panchina è semiricoperta di foglie gialle, ha lo stesso sguardo invitante del plaid sul bracciolo del mio divano. In un attimo ho deciso. Mi fermo, mi siedo e guardo gli alberi. Che sciopero sia.

lunedì 25 ottobre 2010

Tutto

Lo sapevo che sarebbe stato duro, difficile, ma questo non serve a farmi stare meno male. Di un male strano, sconosciuto e nuovo, tagliente come un rasoio. Ore ad aprire cassetti e sportelli, spalancare finestre, tirare fuori roba, abiti, documenti, cianfrusaglie, occhiali rotti, con quell’odore di naftalina prepotente nel naso e la vista che si annebbia spesso, non sempre a causa della polvere. Le mani toccano tutto, veloci, rapide, analizzano e decidono all’istante, questo sì, questo no, e via in una scatola o nel sacco dell’immondizia, ma solo una parte della mia mente è lì a svolgere questo doloroso censimento. L’altro pezzo vaga per le stanze, rivede scene, riascolta la mia vocina di bambina, gli abbracci stritolanti che facevo a mia madre, i suoi pianti, le ore infinite e silenziose della mia adolescenza quando pregavo che qualcuno venisse a buttare giù a calci quella porta e mi portasse via, triste principessa solitaria rinchiusa nella torre ad aspettare un drago sputafuoco. Ogni cosa che mi passa tra le mani è un ricordo, una voce, un profumo, un momento che credevo di aver dimenticato e invece no, è sempre lì, solo un po’ impolverato. Continuo a muovermi da una stanza all’altra, efficiente, cercando di non farmi travolgere, fuggendo dalle mie emozioni, frugando tra le cose di una vita intera e sentendomi quasi inopportuna, ladra, come stessi compiendo un sacrilegio. La macchina da scrivere arancione dove mi esercitavo ad occhi chiusi la sera prima del compito in classe di dattilografia, la mia treccia bionda tagliata a cinque anni e ancora conservata dentro ad una scatolina, i miei dentini da latte, i ferri con cui mia madre preparava il mio corredino, bigliettini di auguri, vecchie sciarpe mai usate, i gialli dei ragazzi, medicine scadute e un servito da tè ancora imballato dal giorno del matrimonio, chissà se dei miei genitori o dei miei nonni, perché il servito buono era spesso troppo buono per decidersi a usarlo e finiva che non lo si usava mai. Tutto, tutto, tutto. Vorrei poter portare con me tutto, anche quella vecchia borsa dell’acqua calda di gomma rossa scura che sbuca improvvisamente dal fondo dell’armadio, consunta e imporrata, che mi riporta a quegli inverni farciti di influenze e mal di pancia, o il bollitore del latte ammaccato e scurito che conosco così bene. La scelta continua e mentre le mani impilano veloci dei piatti in un cartone so che vorrei essere in qualsiasi altro luogo ma non qui, a dover fare questo. Dannazione quanto è difficile, non sono pronta. Non si può essere pronti, non sarei potuta esserlo mai.

giovedì 21 ottobre 2010

Brave!

Sono toscana e quindi polemica, ma sono altrettanto schietta e sincera, e se è vero che mi arrabbio facilmente per le cose che non mi vanno giù, in egual misura mi entusiasmo quando mi imbatto in qualcosa di ben fatto, ed in entrambi i casi lo dico, anzi lo declamo a gran voce. Oggi ho scoperto una cosa davvero carina, che mi ha fatto brillare gli occhi come ad un bambino la mattina di Natale. Ho trovato per caso una deliziosa rivista on line, piena di ricette sfiziose, bellissime fotografie ed altre cosine decisamente interessanti, creata da alcune foodbloggers che hanno deciso di unire le forze per dar vita a questo progetto. Il tutto a portata di un semplicissimo click. Ci sono già un paio di ricettine che mi alluzzano, e un articolo su un paesino portoghese che mi ha incantato e che ho già messo nella lista dei miei must che si sta allungando all’inverosimile. Nell’attesa che esca l’edizione invernale, dovevo proprio dirlo.

martedì 19 ottobre 2010

Domande

A volte mi faccio domande. Forse sarebbe meglio non me le facessi, ma me le faccio lo stesso. Mi chiedo se le persone che progettano una certa cosa ne siano anche dei fruitori. Se quando la ideano, la immaginano e la creano, lo facciano pensando realmente allo scopo che una certa cosa deve avere, e se lo conoscono in prima persona, o se stiano solo lì con la matita in mano a disegnare a vanvera su fogli bianchi, pensando solo all’estetica, alla moda e al design, o anche no, vista l’assurdità di certi aggeggi che ogni tanto appaiono su questa Terra. Più che passa il tempo e più che mi sembra che la seconda opzione sia quella che vada per la maggiore tra questi geni della matita. Da queste parti recentemente hanno deciso di sostituire le vecchie pensiline alle fermate degli autobus con un tipo nuovo, più bello e che si integrasse meglio con il paesaggio. Bene, ho pensato. Ho anche letto che dette pensiline avrebbero avuto un’illuminazione a led a risparmio energetico per garantire la sicurezza anche di notte. Splendido, finalmente qualcosa di intelligente. Fino al momento in cui ne ho vista una, alla fine di agosto, sole rovente e temperatura intorno ai quaranta. Ferro battuto e cristallo trasparente, tettoia compresa, la pensilina brillava come un diamante. Praticamente un forno crematorio, impossibile starci sotto a meno di non volersi candidare per un collasso, la tanto agognata ombra solo un pallido ricordo e proprio nel periodo in cui i bus passano anche ogni mezz’ora. Ma che genialata. Pochi giorni fa sono capitata sotto ad un’altra di queste nuove pensiline. Pioggia battente. Il tetto stretto e obliquo era come se non ci fosse, l’acqua arrivava da tutte le parti, tanto valeva tenere l’ombrello aperto. Davvero un ottimo investimento per la città, complimenti. Lo so, dovrei smettere di farmi domande, ma non ci riesco, e scommetto tutte le penne che chi l’ha progettata non ha mai aspettato un autobus in vita sua.

venerdì 15 ottobre 2010

T.G.I.F.

Finalmente questa settimana è finita, non ne potevo davvero più. La durata di una settimana dovrebbe essere sempre la stessa, ma poi non è mica sempre vero. Questi sette giorni sono stati lunghi, tosti, pieni di grane lavorative che metà sarebbero bastate e conditi anche con qualche bega familiare, pesanti come piombo. E le lancette dell’orologio sembravano incollate. Niente a che vedere con la rapidità con cui trascorrono gli stessi sette giorni quando sono in vacanza, che il giorno di tornare a casa mi sembra ancora di essere appena arrivata. Forse dovrei fare un po’ di training autogeno per vedere di convincermi di essere in vacanza quando sono sepolta dalle scartoffie in ufficio e di lavorare spalmandomi di crema abbronzante distesa su una spiaggia, ma non credo che funzionerebbe. Credo siano queste giornate che si accorciano che mi incupiscono un po’, il cambio degli armadi che incombe, il primo raffreddore della stagione e la prima assemblea di classe della scuola media di ieri sera dove mi sono sentita inevitabilmente più vecchia. Resta il fatto che finalmente si è chiusa questa settimana e guardo speranzosa al weekend che sta già facendo capolino, anche se ovviamente passerà in un lampo. Non importa, adesso è ancora venerdì pomeriggio e guai a chi me lo tocca. E come mi insegnano i miei colleghi d’oltremanica, Thanks God Is Friday.

martedì 12 ottobre 2010

Il piffero del kaiser

Cara Maria Star, spero non ti offenderai se ti chiamo col nomignolo che ti ha dato la Luciana nazionale. So che in questi giorni c’hai un po’ di beghe con gli occupandi ed i manifestandi, e se posso mi metto in coda pure io. Vedi, mia figlia ha iniziato da poco la prima media, ma non sono qui per dirti che il budget di spesa dei libri non solo è stato sforato ma è stato praticamente raddoppiato, o che la quantità di carta che ogni giorno la poveretta si deve trascinare a scuola farebbe venire la scoliosi anche a Maciste e che forse si potrebbe ipotizzare un metodo per lasciare a scuola alcuni libri, o che magari sarebbe auspicabile che ad un’insegnante di inglese venisse fatto un colloquio in lingua prima di rilasciargli la cattedra, come qualsiasi azienda seria farebbe, al di là della quantità di lauree prodotte. No, tralascio questi argomenti banali che tanto ormai sono un male comune in questo Paese e pare che dovremo rassegnarci, mannaggia a me e al giorno in cui non sono emigrata in Lapponia, e ti espongo un argomento diverso. Mi chiedo che senso abbia obbligare i ragazzini ad imparare per forza uno strumento. La musica, così come il disegno, il canto, la pittura, la danza e le arti in generale, non si possono fare entrare a forza nel dna di chicchessia. O questa dote ci accompagna dalla nascita, e molto presto si manifesterà spontaneamente, altrimenti è inutile cercare in tutti di modi di far ballare colui che è rigido come un manico di scopa o trasformare in usignoli quelli stonati come campane. E’ una sofferenza per quelli che ci provano e per i poveracci che gli stanno intorno, che mica è tanto piacevole stare ad ascoltare per ore note stridule e rabbiose che escono fuori sgraziatamente dai flauti, che di dolce purtroppo han solo il nome. Già ci ero passata io un bel po’ di anni fa da questa sgradevole esperienza che di risultati ne ha prodotti solo due: farmi odiare con tutte le forze il maledetto piffero e allontanarmi definitivamente dal mondo della musica. Credo che con mia figlia e praticamente tutti i suoi compagni di classe molto probabilmente si arriverà entro breve agli stessi risultati e, oggi come allora, questo non lo trovo affatto giusto. La musica è una cosa meravigliosa, senza la quale la vita di tutti sarebbe molto più triste e incredibilmente vuota, ma non vedo perché alle scuole medie si debba obbligatoriamente insegnare a produrla anziché dare la possibilità a chi non ama i solfeggi di imparare invece ad ascoltarla, a capirla, a chiudere gli occhi e sentirla scorrere sulla propria pelle. Studiare la storia dei maestri del jazz, capire la bellezza di un’opera, battere il tempo di un ritmo tribale, ascoltare ad occhi chiusi un notturno di Chopin per poi dire quali sono stati i pensieri che hanno attraversato la mente. Non sarebbe infinitamente più importante che i ragazzi capissero tutto questo ed altro ancora, prima di ritrovarsi automaticamente ad odiare un tristissimo flauto di plastica e pensare che musica significhi solo l’ultimo brano rap in hit parade che si sparano a palla nelle orecchie dagli auricolari dei loro mp3?

giovedì 7 ottobre 2010

Quando non esiste un perché

Non so se scrivere o lasciare dentro queste parole. Ma è da stamattina che ascolto e rabbrividisco, le parole si formano nella mia mente incredula e addolorata e non posso trattenerle oltre. Anche se lo scriverle forse le fa sembrare un po’ più vere. Sì, il nero su bianco fa sempre un po’ impressione, ma purtroppo quanto succede in questo mondo cattivo non si cancella nascondendo delle parole in una bocca chiusa. Sono parole frammiste a pensieri, a sensazioni, a tanto dolore e ad una fila interminabile di perché, che restano crudi e senza risposta. Dei tristi e inutili perché, lasciati lì alla polvere e al tempo. Passeranno le stagioni, gli anni, voli di mongolfiere e temporali, crisi di governo e raffreddori, ma quei perché resteranno immutati e identici, senza risposta, sempre, perché risposta non c’è. Non c’è un perché alla cattiveria dell’uomo, a queste atrocità che lasciano senza fiato, ai sorrisi di bambini spenti per sempre senza un briciolo di umanità, con la stessa noncuranza di un mozzicone spento sul marciapiede col tacco di una scarpa. Forse il male non ha mai misura, ma non riesco a non inorridire un po’ di più quando si tratta di piccole vittime innocenti, preda della crudeltà e della follia di coloro che invece dovrebbero proteggerli. Mi chiedo dove siano gli altri, quelli che vivono intorno a questi bambini, come fanno a non vedere niente, a non capire, a non rendersi conto del lupo in agguato. Anche io non mi accorgerei di niente? Mi chiedo questo, incessantemente. E mi chiedo cosa faccia di me una madre migliore o peggiore di quella che adesso sta piangendo la morte di sua figlia.

sabato 2 ottobre 2010

Silent saturday

Che strano il sabato, adesso. Ero abituata a dormire un po’ di più, con la picci che si intrufolava nel lettone e con la quale passavamo ancora un po’ di dormiveglia, lento, caldo e arruffato, in attesa di dare inizio alla giornata con tutta la calma del mondo. Con l’inizio delle medie la musica è drasticamente cambiata, si va a scuola anche di sabato e pertanto la sveglia sul mio comodino suona impietosamente intorno alle sette a prescindere dal giorno della settimana. In fondo non dovrebbe essere una mattina diversa dalle altre, ci si butta di sotto con l’occhio abbottonato, si prepara un caffè nella penombra, si comincia a ricordare il proprio nome e si procede poi con tutto il resto, compresi i berci alla pulcina che rischia sempre di riaddormentarsi a faccia in giù nella sua tazza di latte. Invece il mio organismo sa perfettamente che è sabato, che avrei tutto il sacrosanto diritto di stare a poltrire un po’ di più, e pertanto recalcitra su qualunque cosa, come un mulo che non ne voglia sapere di seguire gli ordini del proprio padrone. Dicono che in questi casi faccia miracoli la vecchia consuetudine del bastone e della carota. Vabbè, per il primo direi che sia bastato guardare la montagna altissima di panni da stirare che mi aspettava al varco ed ho iniziato a tremare come una foglia, per la seconda diciamo che mi sono indorata la pillola con una colazione un po’ più ricca, tipo buffet di un cinque stelle, marmellata, miele e succo di arancia compresi. Nel frattempo il galletto ha indossato l’alta uniforme, si è munito di cavatappi e termometri, e si è prontamente dileguato alla volta del centro storico, dove trascorrerà la giornata a stappare bottiglie e decantare le lodi dei vini presenti nella sua postazione, una delle tante del Wine Town Firenze, la manifestazione enologica che da un paio di giorni ha invaso la città. Esco dalla doccia e trovo la casa vuota e silenziosa, non ci sono abituata a un sabato così. In attesa di tuffarmi nella kermesse di carrelli e liste della spesa in quel luogo di perdizione chiamato Esselunga, metterò su un cd. Perlomeno non ci sarà nessuno a dirmi di abbassare il volume.

martedì 28 settembre 2010

Risotto ai rossi

La foto non c’è, ahimè, il risotto è finito prima che potessi avere anche solo il pensiero di fare uno scatto. Ma è rimasto vivido e potente il ricordo di un piatto davvero buono, nato un po’ per caso mentre buttavo giù il menu da offrire ad alcuni amici sabato scorso. Avevo deciso che il filo conduttore della cena sarebbe stato l’uva, e da lì ad un buon risotto al Chianti il passo è stato breve. Poi però ho deciso di aggiungere un altro rosso preferito, il radicchio trevigiano, per un matrimonio tra Veneto e Toscana davvero ben riuscito.

Risotto al Chianti con Radicchio Trevigiano

Ingredienti:
riso Carnaroli (due pugni a testa ed uno per la pentola)
brodo vegetale
burro
cipolla dorata
pancetta arrotolata affettata fine
radicchio trevigiano
vino rosso Chianti (mezzo litro ogni quattro persone)
parmigiano reggiano
pepe verde, sale

Preparazione:
Tritare finemente la cipolla e farla soffriggere nel burro, insieme ad un po’ di pancetta tagliata finemente. Appena la cipolla sarà appassita aggiungere il radicchio lavato e tagliato a striscioline sottili, lasciandolo stufare per alcuni minuti. Aggiungere il riso e farlo insaporire per qualche minuto. Versare un po’ di brodo e poi abbondante vino rosso, mescolando. Salare e continuare la cottura mescolando e aggiungendo il vino fino a terminarlo, intervallando con mestoli di brodo. A fine cottura mantecare con una noce di burro, abbondante parmigiano grattugiato e una macinata di pepe verde fresco. Servire guarnendo i piatti con alcune foglie intere di radicchio.

giovedì 23 settembre 2010

Tra i due litiganti

La moglie di un mio collega ha letto un libro. E fin qui verrebbe da dire niente di strano. Il fatto è che la lettura di questo libro, di cui non voglio neppure sapere il titolo o l’autore, e se qualcuno di azzarda a dirmelo mi metterò le mani sulle orecchie canticchiando al tempo stesso, a suo dire le ha cambiato la vita. E di conseguenza a tutti quelli che le stanno intorno. Dal giorno in cui ha letto l’ultimo rigo di questo illuminante volume, è infatti diventata vegana. Rigorosamente e assolutamente. Niente più carni, uova, pesce, latte, formaggi e qualsiasi altro alimento di origine animale. Premesso che ognuno è libero di nutrirsi come vuole, di sfondarsi di Nutella e di BigMac o di non nutrirsi affatto, sopravvivendo con pallide zuppe di miso e vagonate di germogli di soia, la cosa mi ha parecchio intristita, ricordando i superbi manicaretti che la persona in questione riusciva a produrre quando ancora non si era imbattuta nella fondamentale lettura. Mai come il dolore che ha provato il povero marito però, gran buona forchetta tra l’altro, che dopo aver sposato una cuoca provetta si è improvvisamente ritrovato a doversi cucinare la bistecca di nascosto sul balcone. L’amore non finisce certo per non avere più qualcuno con cui condividere gioiosamente un tacchino farcito o un tiramisù, ma sicuramente è stato messo a dura prova. Nel mio piccolo, ogni tanto cerco di alleviare la sofferenza del pover’uomo spacciandogli porzioni di coniglio alle olive o spezzatino, che lui si mangia segretamente in ufficio in pausa pranzo, felice come un bambino. Naturalmente, buona parte dei ricettari che sua moglie usava nella vita precedente sono stati messi al bando, relegati in soffitta o dati via, sia mai che possano essere fonte di tentazione. Così, un paio di questi libri peccaminosi sono piovuti addosso alla sottoscritta, che appena li ha visti è andata in brodo di giuggiole e li ha rimirati estatica per un pomeriggio intero, felicissima di continuare a peccare a suon di bavaresi, crème caramel e pasticcini. Due meravigliosi ricettari di dolci e dolcezze squisitamente golose, da provare una dopo l’altra senza alcun ritegno. Vorrà dire che per espiare ai miei peccati continuerò a spacciare in gran segreto porzioni di cheese cake.

lunedì 20 settembre 2010

Festa a sorpresa

Non c’è dubbio, una festa a sorpresa per riuscire alla perfezione deve essere fatta proprio a sorpresa. Nel senso di sorpresa assoluta, di momento in cui uno meno se lo aspetta e soprattutto senza lasciar trapelare nulla, nemmeno uno sguardo strano o un po’ sornione o una telefonata fatta sottovoce, niente insomma che possa dare adito a leggeri dubbi o vaghissimi sospetti. E così è stato. Il mio giro di boa era ormai passato da una settimana, festeggiato in modo semplice in famiglia, una passeggiata all’ombra del cupolone, una pizza e qualche telefonata di auguri. I regali già recapitati, da quello del galletto che aveva colto la palla al balzo in anticipo durante la nostra vacanza francese quando mi aveva visto fare gli occhi a cuoricino per un orologio esposto in una vetrina, a quello della picci che aveva acquistato all’ultimo momento con l’aiuto della nonna dilapidando quasi tutti i suoi averi per comprarmi il mio mascara preferito. Insomma, il compleanno era già totalmente archiviato e dimenticato. Stop. Così quando siamo arrivati al Grand Hotel per partecipare ad un evento enologico dell’associazione di sommelier del galletto e il ristorante era elegantemente apparecchiato ma senza nessuno in vista, ho pensato solo che fossimo in anticipo ed ho continuato a guardarmi placidamente intorno, osservando i movimenti degli chef nella cucina a piena vista. Il fragoroso scroscio di applausi e le grida di auguri che hanno improvvisamente rotto il silenzio mi hanno lasciata assolutamente stupefatta, letteralmente a bocca aperta, la mascella caduta a terra in un nanosecondo. E’ stato stranissimo: i miei occhi sgranati riconoscevano i volti ridenti degli amici appena usciti dal loro nascondiglio ma contemporaneamente il mio cervello si rifiutava di capire cosa stesse succedendo e riusciva solo ad inviarmi un messaggio di totale black out. Per un attimo ho seriamente pensato ad un’allucinazione. Poi ho capito, ed è arrivata la bomba a mano di choc, emozione, gioia ed incredulità che mi è esplosa in pieno petto, facendomi indietreggiare, boccheggiare, ridere e piangere allo stesso tempo e farfugliare indistintamente. Nell’arco di poco tempo sono stata abbracciata e baciata da venti paia di braccia, tutti che dicevano qualcosa ed io che non capivo ancora nulla ma ridevo come un’ebete pensando di sognare, il galletto mi ha depositato in mano uno splendido bouquet di rose, salvia e peperoncini e i miei amici un pacchettino piccolo che conteneva un dono grande. Era per me, tutto quello era per me. Non riuscivo veramente a crederci, ed è stato così per molto tempo, per tutto il pranzo ed anche dopo, la sera, la notte. Per me, continuavo a pensare, per me, per me. Mio marito ha fatto questo per me. Incredibile. Ne sono rimasta davvero stupita, felicemente sconvolta. Perché anche se è vero che l’amore si dimostra ogni giorno, nelle piccole cose, nei gesti quotidiani, nei bronci e nei sorrisi, è veramente bello ritrovarsi improvvisamente davanti ad un gesto plateale, pensato, architettato e organizzato appositamente per me, soprattutto se arriva da parte di quella persona che normalmente odia organizzare qualsiasi cosa e che anche per i compleanni della pulcina evita sempre ogni tipo di coinvolgimento attivo che non sia il solo andare al forno a ritirare la schiacciata. Naturalmente questa cosa ha cancellato con un colpo di spugna qualsiasi pendenza penale, restituito tutti i punti sulla patente, praticamente un condono in piena regola. Chissà se come contropartita a breve mi verrà chiesto il permesso di andare a fare una crociera sub a Cuba o sul Mar Rosso? Ci penseremo. Io nel frattempo mi godo il momento.

mercoledì 15 settembre 2010

Come da copione

So con certezza di aver pianto a tutti i tuoi primi giorni di scuola. A volte con un paio di lucciconi furtivi, altre con un piccolo diluvio sotto gli occhiali da sole, ma le lacrime mi hanno sempre accompagnata nei tuoi esordi tra i banchi di scuola. Sono una maledetta sentimentale, mannaggia a me, e anche se rido e scherzo e sembro una tosta, in realtà sono una frignona inenarrabile, adesso cominci a rendertene conto anche tu. Ma stamani avevo deciso di tenere duro. Che figura ti avrei fatto fare a piangere davanti al cancello della scuola media? Che anche se i grandi entravano un’ora dopo ed eravate solo una marea vociante di emozionati primini, mica sarebbe stato bello ritrovarti con una mamma balbettante nei pressi. Così ho chiacchierato con gli altri genitori, ti ho fatto un po’ di foto con le amiche del cuore, ti ho abbracciata e ti ho mandata avanti da sola, alla scoperta della tua nuova aula e dei tuoi nuovi amici. Sei partita impettita facendoti largo in mezzo alla marea umana e non ti sei voltata indietro, facendo subito gruppo con gli altri e salendo le scale con decisione. Io ti ho guardata da lontano in silenzio, ho salutato quelli che conoscevo e poi sono partita a razzo sul marciapiede convinta che avrei fatto tardi al lavoro. Ma che brava che sei stata gallina, mi son detta, non hai fatto una piega, hai visto com’era contenta la picci, è grande ormai. I piedi camminavano svelti mentre mi tenevo stretto il giubbotto nell’aria frizzante della mattina, guardando il marciapiede scuro scorrere sotto di me come un nastro. E’ stato proprio il ricordo di quel marciapiede che mi ha tradita, dei nostri passi di alcuni anni fa, tu piccola e sorridente, tre anni, un grembiulino a quadretti rosa un po’ troppo lungo e un minuscolo zainetto colorato con Winnie Pooh. Ho chiuso gli occhi ed ho riavvertito nettissimamente la sensazione della tua manina stretta nella mia mentre ti accompagnavo al tuo primo giorno di asilo. Li ho riaperti ed ho intravisto un paio di gocce sull’asfalto grigio, non può essere pioggia, ho pensato. Avevo ragione, erano solo le lacrime del primo giorno di scuola.

venerdì 10 settembre 2010

Guazzabuglio

Finalmente. Finalmente riesco a trovare cinque minuti per lasciare andare le dita su questa tastiera e cercare di mettere ordine in questo guazzabuglio di pensieri che mi frullano in testa senza sosta, disordinati, alla rinfusa, che appena uno finisce subito ne arriva un altro e un altro ancora e poi quasi non ricordo più quello precedente e così dopo un poco si riaffaccia pure lui. Basta. Mettetevi in fila, da bravi. Meglio in fila indiana, o se proprio volete farvi compagnia mettetevi in fila per due, tenendovi per mano come gli scolari, ma state un attimo zitti che devo capirvi, interpretarvi, forse anche tradurvi. Dopo una sessantina di buchi sulle braccia la pulcina è risultata allergica solo agli acari della polvere e a nessun alimento ma il sospiro di sollievo non sono riuscita a farlo, è rimasto bloccato a metà strada, perché l’orticaria che la perseguita da qualche parte dovrà pure arrivare. Penso al nuovo incarico professionale che mi è stato affidato e nonostante la fiducia e la considerazione che evidentemente hanno di me a volte mi chiedo se non mi abbiano confusa con il genio della lampada o con quel signore barbuto specializzato nel camminare sulle acque. Riassaporo le parole che mi ha rivolto l’insegnante di danza di mia figlia oggi pomeriggio, al termine di questa sua settimana di stage in una nuova scuola, al mio sguardo incredulo e orgoglioso mentre mi cantava le sue lodi con sincerità e aperta ammirazione, e a quanto ne sia stata felice, che non c’è niente di più bello di un complimento spontaneo e inaspettato. Ascolto i pensieri banali, quelli della trentina di libri di scuola ancora da ricoprire con pazienza certosina, quelli del bucato da stendere di corsa prima che diventi buio e quelli delle canottiere per mio padre da cucire con quegli antipaticissimi numerini adesivi che devono essere cuciti lo stesso e quindi mi chiedo a cosa serva averli comprati adesivi. Programmo carpaccio e insalata per una cena veloce che ci aspetta tra poco per poi andare ad ascoltare alcune persone che mi piacciono tanto parlare del mondo che vorremmo, e che so già mi faranno riflettere, arrabbiare ed inevitabilmente soffrire. Chiudo gli occhi e vedo mia madre, scarno uccellino tremante dentro quel letto bianco, li riapro di botto e guardo altrove, no, stasera non ce la faccio. Vedo il fine settimana srotolarsi davanti a me come un tappeto, voglio pensare solo a cose belle, è un weekend speciale, lo riconosco dall’aria fresca e dal vento, lo sento dentro. Domenica è il dodici gallina mia carissima, proprio il tuo dodici. Che sia davvero il tuo giorno speciale.

venerdì 3 settembre 2010

Azzurro settembre

Il cielo di settembre mi lascia sempre di stucco. Non riuscirò mai ad abituarmi a questo azzurro penetrante e perfetto, liscio e pulito come un enorme foulard di seta lucente o cosparso di nuvole piccole e soffici come riccioli di panna montata, quelle dei fumetti, che non portano pioggia ma solo tanta allegria. Cammino svelta con gli occhi in su, non posso fare a meno di guardarlo, ne sono incantata. Un passante ha seguito incuriosito il mio sguardo pensando forse che avessi avvistato un ufo ma ha incontrato solo le profondità di questo mare arrovesciato ed è tornato a guardarmi sorpreso, probabilmente pensando che fossi un po’ matta. Non tutti si accorgono di questo cielo incredibile. Continuo a guardarlo, innamorata. Sarà il contrasto con le chiome ancora ricche e verdi degli alberi, l’aria frizzante del primo mattino che mi accarezza le guance, la semplice gioia di poter camminare sotto questo mantello blu, che non è azzurro e non è cobalto e forse neanche pervinca e neppure celeste, è tutti questi colori messi insieme e ancora credo che ne manchi qualcuno. Azzurro settembre. Ecco, se quelli del Pantone riuscissero a creare una sfumatura identica la dovrebbero chiamare così, al posto dell’ennesimo banalissimo numero. Ma tanto, non ci riusciranno mai. Cammino, respiro a pieni polmoni e mi sento carica di energia e di voglia di fare. Eppure è solo un banalissimo venerdì mattina di inizio settembre. Ma è il mio settembre. Ti sembra poco?

lunedì 30 agosto 2010

Tanto per gradire

Agosto non è ancora finito, la città sonnolenta, le strade semivuote. Stamani c’era chi parlava del ritmo rilassato di questi giorni. Io li ho guardati storti. Per quanto mi riguarda, qui di rilassato non c’è nemmeno il gatto dei vicini, che stanotte miagolava come un forsennato e dalla zuffa che ne è scaturita mi è sembrato che ne abbia anche buscate. Qui siamo già in rampa di lancio che nemmeno a Cape Canaveral. La massa di post-it e biglietti assortiti che ornano la cappa della mia cucina proclamando a gran voce tutta la lista delle mie incombenze aumenta a vista d’occhio, la difficoltà a questo punto sta nel capire quale sia quello più urgente, che tutti sono sottolineati, scritti in rosso e ornati di punti esclamativi assortiti. Un assurdo mosaico giallo di telefonate da fare, documentazioni da richiedere, fax da inviare, preventivi da sollecitare, ausili per handicap da ritirare, altri da riconsegnare. Mi guardo indietro e mi rendo conto di quanto tempo sia già passato da quando ho dovuto affrontare tutto quello che mi stava capitando, con gli alti e i bassi che ho attraversato. Non è stato facile arrivare fin qui e non lo sarà neppure procedere nei mesi a venire, tanto ancora deve succedere, e non ultima la casa che mi ha visto nascere che dovrò smontare pezzo per pezzo come un puzzle e poi chiudere a chiave per sempre. Rabbrividisco al pensiero di quello che significherà aprire ogni cassetto, sportello, anta di armadio e dovermici tuffare di testa senza fare una piega. Sbagliato, di pieghe ne farò più d’una, anche questo lo so già, ma cercherò di trattenere il fiato come un pescatore di perle, spingendomi in apnea il più velocemente possibile, fino ad arrivare a toccare il fondo e poi, in un lampo, tornare su. Mentre cerco di fare piani di sopravvivenza e tattiche militari per diluire un po’ questa matassa, mi consolo con l’ordinazione dei testi per la scuola media, e fai che siano ottimi perché dopo aver pagato trecentoventiquattro euro di libri per la prima è bene che lo siano davvero, soprattutto per il futuro stato di salute della preside e dei professori, visto che la mia di salute mentale è un po’ traballante ultimamente e mi sento, come dire, piuttosto portata all’incazzatura in questo periodo, tanto per usare un francesismo dato che recentemente ho rinfrescato la lingua. E poi una novità, che sennò sarebbe stato troppo semplice trascorrere questa fine estate cittadina. La pulcina si è riempita di enormi pomfi pruriginosi, gli occhi rossi e gonfi, le occhiaie viola. Praticamente un incrocio tra la Pimpa e un vampiro di Twilight. Malattie esantematiche subito scartate, abbiamo già dato. Trattasi di orticaria. Allergia. A cosa nessuno ancora lo sa, le prime prove cutanee la attendono la prossima settimana, poi quelle più approfondite in ottobre. Nel frattempo la dieta più triste del mondo e tanta pazienza. E la mia preoccupazione, of course. Ma perlomeno mi sono distratta davvero da quella ragnatela gialla appiccicata in cucina.

venerdì 27 agosto 2010

La trottola

La trottola gira, gira, gira. Gira talmente forte che non riesci neppure più a distinguerne i colori e quell'unica sfumatura incerta che riesci a vedere ti fa credere che tutto sia a posto, che i problemi e le difficoltà si siano dissolti, e quasi riesci a dimenticartene. Poi la trottola si ferma, ogni colore riprende il suo posto e ti accorgi che in fondo tutto è rimasto come prima. Ci sono i gialli, i rossi, gli azzurri, ma anche quella serie infinita di colori bui che non puoi ignorare. Tutto ritorna, i sospiri, le lacrime, l'infinita tristezza. Devi sforzarti di ricominciare, in fondo si è trattato soltanto di una pausa. Ma quanto è stata bella l'illusione che la trottola potesse continuare a girare per sempre.

martedì 24 agosto 2010

Chapeau

Sono tornata con il tricolore negli occhi, ma c'e il blu al posto del verde. La Francia mi ha ancora una volta lasciata senza parole. Affascinata, rapita, ammaliata. Mi sono nuovamente innamorata delle verdi distese infinite, della cura per ogni dettaglio, delle aiuole straboccanti di fiori ad ogni angolo, di quella cortesia lievemente sfumata di riservatezza, del savoir vivre semplice e perfetto e così dannatamente lontano dal nostro. Tengo stretti nel pugno i ricordi di questa vacanza nata all’ultimo momento ma che ciononostante si è morbidamente dipanata dal gomitolo senza annodarsi mai. Giorni che abbiamo assaporato con calma e con lo sguardo curioso dei bambini, raccogliendo sensazioni ed emozioni diverse e bellissime. Lo scrigno nero della mia Canon è ancora pieno di tutti quegli attimi che ho fermato per sempre ma mi basta chiudere gli occhi per vederli scorrere come un film e riviverli, uno per uno. I vigneti infiniti di Alsazia e Borgogna, i filari dritti e perfetti a pettinare le colline scoscese fin quasi al cucuzzolo, tanti piccoli eserciti di soldatini pronti a combattere a suon di grappoli neri. I calici riempiti nella fresca penombra delle cantine secolari ascoltando i vignerons descrivere i loro nettari come farebbe una madre per le prodezze di un figlio. Le viuzze dei paesini rimaste pressoché intatte dal medioevo, le insegne dondolanti in ferro battuto, i tavolini di un bistrot sotto un loggiato fiorito, i grandi nidi delle cicogne appollaiati in cima ai tetti appuntiti. A zonzo per città, autostrade, centri commerciali e parcheggi sotterranei, perennemente inseguiti dallo stesso filo conduttore di pulizia e funzionalità, facendo purtroppo i conti con gli imbarazzanti paragoni che ne sono scaturiti pensando a quel che potrebbe essere anche la nostra terra se soltanto ci fossero educazione e rispetto, dovunque e comunque. Il galletto ha riempito l’auto di bottiglie che nemmeno un'enoteca, ma la gallina non e' stata da meno con una bella scorta di foie gras e terrines che arriverà fino a Natale, senape aromatizzata in mille modi acquistata tra i banchi affollati del mercato coperto di Digione e nella splendida boutique Maille che sembrava una gioielleria, una meravigliosa ortensia rifiorente americana che ho tenuto tra le gambe per tutto il viaggio di ritorno e naturalmente un po’ di quelle famose marmellate che a forza di leggerne a destra e a manca erano diventate assolutamente un must: Fragola menta e pepe nero, Arancia sanguigna alla vaniglia, Ciliegie nere e lamponi d’Alsazia, Agrumi al pinot nero e cannella. Uno spettacolo, si sorride solo a guardare i vasetti, praticamente una cura antidepressiva che assicurerà una buona dose di allegria durante le buie colazioni autunnali. Ed infine una gallina. Buffa, rossa, mi ha fatto l’occhiolino. Non potevo certo esimermi dal portarla nel pollaio.

lunedì 2 agosto 2010

La cura

Per fortuna dopo i momenti no tornano anche quelli sì. Merito del cielo azzurro e croccante che ricopre la città da qualche giorno, dalle mattine fresche che quasi-quasi ci vuole un golfino, dall’aver trascorso una giornata in montagna al campo scout della pulcina, dove l’abbiamo trovata allegra, felice e naturalmente stanchissima, che dopo una settimana di scorribande e canti sotto le stelle si stancano anche gli undicenni. Merito soprattutto di aver riaperto i battenti alla mia agenzia di viaggio personale, quella che curo personalmente e della quale sono titolare, impiegata e fattorino al tempo stesso, oltre che ovviamente unico socio. Era chiusa da un po’ in effetti, salvo rare aperture per piccole cosucce da organizzare in cinque minuti, ma appena si sono aperte le danze è stato come se non avesse mai smesso di sfornare programmi e itinerari. Così in mezza giornata mi sono cucita una vacanzina su misura, perfetta, nemmeno da farci un orlino. Itinerario, programma di base, chilometraggi, pernottamenti, prenotazioni. In effetti sarebbe dovuto essere il mio lavoro e forse non sarei stata un tour operator affatto male, maniaca della precisione e del dettaglio come sono. Non è andata in questo modo, e così tiro su la saracinesca della mia agenzia solo per uso personale, anche se ogni tanto qualche amico che adocchia i miei itinerari sgrana gli occhi, mi guarda sorpreso, e poi mi chiede se gli posso organizzare le prossime vacanze. Questo capo di alta sartoria è in via di perfezionamento ovviamente, devo fissare un po’ di appuntamenti con i vignerons, informarmi meglio su alcuni orari di castelli e cattedrali, ma il più è sicuramente fatto. E questa cura è la migliore che vi sia per far risollevare anche l’umore più nero, garantito al limone. Che buffo poi, quel progettino che mi frullava in testa tempo fa, è proprio quello che ho voluto realizzare per primo. Mai lasciare storie incompiute.

giovedì 29 luglio 2010

Stanca

Sono stanca di costruire castelli di carte e vederli cadere giù alla minima ventata. Di ascoltare il silenzio che mi circonda e accorgermi che questa solitudine è una coltre impenetrabile. Di dovermi tuffare in fondo al mare per cercare di non vedere ciò che galleggia in superficie. Di incassare tutti i colpi senza poter far niente perché ormai niente c’è più da fare. Stanca di sospirare e di dovermi nascondere per far rotolare via in silenzio le lacrime che pungono inesorabili. Del senso d’inadeguatezza che mi pervade, delle parole che non ci sono mai, della mia vita che sempre più spesso sembra un binario morto. Stanca di dover scavare sempre più a fondo per cercare di trovare ancora un po’ di forza per andare avanti, incollandomi alla faccia un sorriso che non riesce a star su neppure con l’Attak. Sono stanca. Stanca davvero.

giovedì 22 luglio 2010

Proprio stasera

E così è passato anche il tuo undicesimo compleanno. Anzi, no, a voler essere precisi manca ancora una manciata di minuti a quelle ventidue e trentasette di quel ventidue luglio del millenovecentonovantanove, quando ti vidi per la prima volta e in un nanosecondo mi innamorai perdutamente di te. In realtà, come accade spesso, abbiamo già festeggiato, e pure due volte, che quando si tratta di momenti di gioia sono dell’opinione che si possa anche abbondare che male certamente non fa. C’è stata la solita festa in largo anticipo, prima ancora che finisse la scuola, con una diecina di bambine scatenate che hanno spalmato pizza sul cotto del pranzo all’aperto come se avessero deciso di giocarci a dama, costellandolo di deliziose macchie di unto che resteranno a perpetuo ricordo negli anni a venire. C’è stata la consueta cena in famiglia, poche sere fa, con nonni, zii e quasi-zii e la sessione culinaria della sottoscritta che è durata praticamente una giornata ma che mi fa sempre stare così bene che penso non ci sia niente di più terapeutico per una donna di una serata che riesce alla perfezione. Poi è arrivato oggi, un po’ in sordina, un giorno come gli altri, il lavoro, un controllo medico al pomeriggio, due milk shakes al Mac e la tua valigia da preparare. Già, perché uno dei tuoi regali è stato proprio un viaggio, che i nonni hanno deciso di farti a sorpresa e così poco fa ti abbiamo salutata. Tornerai di notte e di notte trasformerò la tua valigia in uno zaino perché dopo poche ore partirai nuovamente, alla volta di una settimana di giochi nel verde con il tuo branco di lupetti. Ti vedo sfuggire dalle mie dita come sabbia fine che si insinua nelle fessure e senza farsene accorgere scivola via silenziosa, e non so che fare. Sono felice per te, delle tue esperienze, della gioia che ti brilla negli occhi, ma allo stesso tempo mi sento svuotata, strana, incupita. Mi manchi già. Proprio stasera, proprio a quest’ora. Ripenso alla notte scorsa, che hai voluto passare nel lettone in mezzo a noi come regalo speciale di compleanno, a tutte le volte che mi giravo, scalciando via il lenzuolo troppo caldo, e ti trovavo lì, attaccata alla mia schiena come una cozza e mi fermavo ad ascoltare il tuo respiro sottile, cercavo la tua manina calda e la baciavo piano. Auguri tesoro mio, che la vita ti sorrida sempre. Una lacrima furtiva si infila tra le mie ciglia. Che palle di mamma che sono, lo so. Ed infatti ho già una vaga idea di dove ti chiederò di dormire, quando tornerai. Stavolta il regalo speciale sarà per me.

giovedì 15 luglio 2010

Grissini al miele e pecorino

Nonostante il caldo terribile di questi giorni, appena mi sono imbattuta in questa stuzzicante ricetta ho deciso subito di provarla, anche se ciò ha significato accendere il forno per un po’, ma direi che ne sia valsa decisamente la pena. In breve tempo sono usciti fuori questi appetitosi grissini, ottimi da soli come croccanti spezzafame, per accompagnare un aperitivo o per essere avvolti da fettine di speck tirolese come antipasto.

Grissini al miele e pecorino

Ingredienti:
350 gr. di pasta da pizza fresca già lievitata
100 gr. di pecorino grattugiato
miele di castagno
pepe verde
semi di lino
semi di sesamo
olio extra vergine di oliva
un po’ di farina per stendere

Preparazione:
Togliere dal frigo la pasta da pizza e lasciarla mezz’ora a temperatura ambiente. Accendere il forno a 200°. Infarinare leggermente il banco da lavoro e con l’aiuto del matterello stendere la pasta in una sfoglia molto sottile di forma rettangolare. Spennellare con il miele la metà della sfoglia, cospargerla con il pecorino grattugiato e un po’ di pepe verde macinato fresco e ripiegarci sopra la metà della sfoglia rimasta libera, pressando un po’ con le dita. Tagliare delle strisce larghe circa un centimetro e mezzo e farle rotolare su se stesse sul banco da lavoro dove avremo sparso un po’ di semi di lino e di sesamo, premendo un po’ ed ottenendo dei cordoni grossi più o meno come un dito. Adagiarli sulla placca da forno coperta con carta da forno e spennellarli di olio. Cuocere in forno caldo per circa 16-18 minuti in modo che diventino dorati. Raffreddare a temperatura ambiente e servire.

martedì 13 luglio 2010

Il fidanzamento

Glielo leggo negli occhi prima ancora che apra bocca. Hanno una luce nuova, diversa. Una piccola scintilla le danza nello sguardo. Mamma, devo dirti una cosa, mi dice la pulcina sorridendo sorniona, mi sono fidanzata con A. Avverto un brivido strano. Oddio, ci siamo, ho pensato. Avrei voluto fermare il tempo in quell’istante, cristallizzarlo per sempre. Faccio finta di nulla, le sorrido, le chiedo com’è andata e ascolto divertita il racconto di questo fidanzamento estivo a metà strada tra elementari e medie, che durerà il tempo dei centri estivi e poi chissà, ma che mi lascia comunque intimorita come davanti ad un qualcosa di nuovo e inaspettato. Non è la cosa in se che mi disturba, che anzi mi intenerisce e diverte anche un po’, pensando a quanto sia buffo il destino, ricordando bene le passeggiate che io e la mamma di A. facevamo nel parco, spingendo le rispettive carrozzine prima e passeggini poi, mentre i relativi occupanti si studiavano a vicenda, una bionda come il grano, l’altro nero come l’ala di un corvo. Ricordo che una volta ci fu addirittura uno scambio di ciucci. Ciò che mi spaventa un po’ è l’atteggiamento che intravedo, la femminilità che sta facendo capolino, la porta che si sta spalancando su un mondo nuovo con il quale dovrò fare presto i conti. Poi lei si accoccola sul divano a guardare l’ennesimo cartone, io mi avvicino e lei si stringe a me come un gattino. Il mio cuore salta un battito. Forse non è tutto perduto. Non ancora.

martedì 6 luglio 2010

Sera di sogni, sogni di sera

E’ nata per fare castelli in aria
questa serata solitaria
cento progetti da realizzare
matte idee da far volare.
Pensieri leggeri come piume
ombre di ali alla luce del lume
volo infinito della mia fantasia
sogni in carrozza e un po’ di follia.
Studio la stanza che devo inventare
la voglio finita prima che sia Natale
misure, schemi, poi chiudo gli occhi
vedo anche un angolo per i miei balocchi.
Un salotto speciale per prendere il tè
un divano piccino solo per noi tre
scaffali di libri e foto a quintali
un nido speciale per i temporali.
C’è una vacanza che sembra in arrivo
e non sarà breve il preparativo
viaggio o sollazzo, aereo o veliero
basta decidere qual è l’emisfero.
Intanto ci penso ed apro l’atlante
ma poi non importa andare distante
voglio solo un sorriso che illumini il cuore
e un vento fatato che curi il mio umore.
La sera diventa di luna e di stelle
continuo a pensare a cose più belle
fa bene alla vita guardare lontano
e tengo stretti i sogni nella mia mano.

giovedì 1 luglio 2010

Oggi no

Non leggo i fondi di caffè, né tantomeno la mano e l’unica palla di vetro che ho è quella piccina con la torre di Pisa che staziona sul mio comodino da quando la picci me l’ha portata in dono dalla sua gita scolastica, che ogni tanto scuoto per far cadere una simpatica nevicata glitterata. Mai avrei pensato che un giorno avrei avuto uno di quei trofei sul comodino, ma ovviamente, mai dire mai. Non sapendo pertanto prevedere il futuro, né quello prossimo né quello lontano anni luce, ho deciso di smettere di angustiarmi e di fasciarmi la testa da mille preoccupazioni. Ogni giorno un pezzettino, non di più. Giusto quello che c’entra nelle ventiquattrore, al resto penseremo il giorno dopo, non un minuto prima che suoni la sveglia delle sei e quaranta. Se proprio devo occuparmi di previsioni, voglio che siano solo quelle del tempo, da guardare di sfuggita e dimenticarsene un attimo dopo, come mi capita a volte. Guardare l’oggi, l’adesso, l’ora, il minuto. L’immantinente, come dicevano negli anni cinquanta. Così chiudo i battenti sul domani e penso alla pulcina che tra pochi minuti tornerà dal centro estivo, accaldata e rosea come una peonia, alla merenda da prepararle, yogurt e cereali, pane e olio oppure un gelato, al tardo pomeriggio che abbiamo deciso di regalarci, io a lei e lei a me, una prima visione che, è proprio il caso di dirlo, affascinerà grandi e piccine e ci lascerà sognanti, tremanti e con gli occhi a cuoricino. Già il pensare alla tarda cena che mi attende mi pare quasi troppo. Vabbè, spaghetti al pomodoro e uova strapazzate, non è che sia un pensiero troppo difficile, quello posso anche farlo. Poi basta. Domani sarà domani. Oggi no.

martedì 29 giugno 2010

Fragile

Se potessi non verrei a trovarti mamma. Non entrerei nella tua camera, non mi avvicinerei al letto, non ti guarderei, non allungherei la mia mano per accarezzarti, non ti massaggerei la gambe indolenzite dai crampi, non poserei lo sguardo su di te, sulla tua sofferenza, sul tuo male che ti sta portando via ogni giorno un poco di più. Una pugnalata dritta al cuore mi farebbe stare meglio. Non voglio ricordarti così, disperata, bianca, le ossa tristi sotto al lenzuolo, la mano che non riesci più ad aprire. Non voglio, non voglio. Voglio chiudere gli occhi e rivedere i tuoi occhi verdi pieni di allegria, le pantofole rosa con i tacchetti ed il pon-pon di piume di struzzo che adoravo e che indossavo sempre per giocare alle signore, il tuo smalto rosso scuro, gli zatteroni degli anni settanta, le risate che ci facevamo insieme giocando a rubamazzo e le lacrime che mi asciugasti sorridendo quando lessi Pattini d’Argento. Non posso vederti così, non riesco, vorrei poter fare qualcosa, qualsiasi cosa, e mi trovo impotente, incapace. Ci sono momenti in cui mi odio per non riuscire a stare più tempo con te, per questa mia codardia che mi fa fuggire dalla sofferenza che mi travolge ogni volta che vengo da te. Voglio ricordare la tua dolcezza, le tue parole sempre perfette e giuste per ogni occasione, la comprensione, l’amore immenso che mi hai donato e che io non riesco a ricambiare allo stesso modo. Mi scopro egoista, mamma, non credevo di esserlo. O forse è solo paura, una fuga dal dolore che so di non poter più sopportare. Oggi è andata così, sono quasi scappata da te, non ce l'ho fatta, è stato più forte di me. Perdonami mamma, sono solo una figlia provata da tante vicende, come un antico cristallo incrinato.

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