martedì 29 aprile 2008
Chiantishire
Gli inglesi che vi si sono trasferiti o che semplicemente vi hanno lasciato un pezzetto di cuore lo chiamano così. Per me, più semplicemente, è il Chianti, quel pezzo di campagna toscana tra Siena e Firenze dove le colline si fanno dolci e sinuose, dove le vigne si susseguono a perdita d’occhio e dove sembra che di alberi esistano solo olivi e cipressi, ritte sentinelle scure a far la guardia a tutto quel ben di Dio. Quando da piccina i miei mi portavano con loro a Greve a comprare il vino direttamente in cantina, e immancabile ci scappava sempre la sosta nella più antica macelleria della zona per un salame o una bella bistecca, che la mucca pazza allora non si sapeva neanche cosa fosse, non mi rendevo conto dei panorami mozzafiato che mi circondavano, dei colori, della luce che filtrava obliqua attraverso i vigneti. Semplicemente, lo davo per scontato. La campagna per me era quella, non poteva essere diversa, del resto gli olivi erano proprio davanti alla casa di mio nonno, nel campo dove d’estate raccoglievo le more nei rovi e dove d’inverno correvo per scaldarmi nel mio cappottino rosso. Adesso invece mi capita di non dare più niente per scontato, ma di riuscire a guardarmi attorno e gioire di ciò che vedo, quasi come fosse la prima volta o fossi un inglesina che ha lasciato le brume del Devon per avventurarsi lungo la via chiantigiana. E quello che ho visto nei giorni scorsi, malgrado la familiarità dei luoghi, delle facce e delle voci, mi ha resa davvero felice. Felice di poco, di nulla, ma non è forse vero che la felicità risiede nelle piccole cose. Ed io lo sono stata di una ficattola al prosciutto, calda e fragrante, mangiata sotto il sole su di una panca di legno. Di aver ascoltato il suono delle chiarine con mia figlia, mentre gli sbandieratori roteavano i loro drappi colorati, spiegandole che quelle non son certo trombe. Di aver osservato da lontano il Galletto che degustava un rosso, intento a rotearlo e a scrutarne il colore neanche fosse stato un rubino birmano, in una viuzza stretta fatta di pietra, secoli e imposte. Di aver sceso una scala e aver contato con la picci una ventina di nidi di rondine, che per fortuna esistono ancora, osservando in silenzio il rapido andirivieni di queste future mamme in cerca di cibo e sterpaglie. Di aver improvvisato un tango con tanto di casché con la picci sul sagrato della piccola chiesetta di Montefioralle, che quando il buonumore vuole uscire a farsi un giro non è mica facile riuscire a tenerlo a bada. Di essermi affacciata ad un muretto e aver visto una collina perfetta, verde da far male, e fiori e viti e una fila di cipressi e una stradina bianca e curva come quelle che nei disegni dei bambini non mancano mai. Di aver chiuso gli occhi e respirato un’aria magica e dolce, che spalancava le sue braccia e mi accoglieva sorridente. Felice di tutto questo e, soprattutto, di esserci.
giovedì 24 aprile 2008
Sei cose che amo
Quest’aria frizzantina primaverile mi fa venire una gran voglia di fare e di disfare, gambe frementi da maratona, testa da brainstorming fino a notte fonda, occhi che guardano fino alla Luna e mani che scriverebbero fino al duemilaventi. Una gran botta di energia che, già lo so, il primo caldo afoso annienterà come neve al sole e mi ritroverò ciondolante e svuotata in un batter d’occhio. Godiamoci quindi fin che dura questo carico di forza e positività e, visto che purtroppo la mia giornata non mi permetterà di correre gare podistiche o di arrampicarmi in percorsi trekking, ma si dipanerà tra l’ufficio, uno studio medico e la premiazione della pulcina, che per il secondo anno consecutivo ha vinto un premio di disegno, ho deciso di iniziare subito a convogliare un po’ di questa lucentezza in un meme, al quale sono stata invitata a partecipare da Gianluca di Bloggando s’impara. Meme facile, basta elencare sei cose che mi piace fare. Sbagliato. La difficoltà c’è e sta proprio nel limitarsi a sole sei cose, perché sono molte di più le cose che amo fare. Vabbè, mi limiterò ai miei must.
Viaggiare – da una semplice giornata fuori porta ad un lungo viaggio dall’altra parte del mondo, questa è in assoluto la cosa che amo fare di più. Circolo polare o deserto del Sahara, campagna umbra o fiordi norvegesi, Dolomiti o Rocky Mountains, Cape Town o Perth, non esiste un luogo che non mi piacerebbe conoscere.
Leggere – di tutto, di più. Se ci sono parole scritte, si può star sicuri che i miei occhi le leggeranno, divorandole, assaporandole, gustandole, come il più raffinato dei cibi. Cibo per la mia mente, ecco. Sia che si tratti dell’ultimo legal thriller di Grisham, di un quotidiano, di Vanity Fair, di un saggio sul mondo dell’infanzia o di un romanzo storico. All’elenco telefonico non ci sono ancora arrivata però.
Stare con mia figlia – leggerle fiabe ad alta voce, portarla al parco, giocare a battaglia navale, asciugarle i capelli col phon, fare a gara a chi arriva prima al portone, abbracciarla all’uscita da scuola, coccolarsi nel lettone, chiacchierare sotto voce e… potrei continuare all’infinito. Tutto ciò che faccio con lei mi dona una gioia immensa. Semplicemente.
Cucinare – anche se i momenti in cui ho il tempo per farlo bene sperimentando nuove ricette o nuovi sapori sono sempre troppo pochi, le volte in cui mi godo un pomeriggio ai fornelli con grembiule e sottofondo jazz sono davvero momenti speciali, che amo e che mi donano tanta serenità.
Camminare in montagna – preferibilmente da sola, senza che le chiacchiere di qualcuno mi distolgano dalla magia del paesaggio, dai silenzi, dalla pace che mi circonda. In quei momenti riesco davvero a veder volare il mio cuore.
Scrivere – una passione che per troppo tempo avevo accantonato e che adesso ho riscoperto con l’apertura del pollaio. Un piacere al quale non saprei più rinunciare. La gioia incredibile di vedere le mie emozioni trasformate in parole.
Stavolta non faccio inviti specifici, ma invito semplicemente tutti quelli che abbiano voglia di partecipare. Le regole, le sappiamo già.
Viaggiare – da una semplice giornata fuori porta ad un lungo viaggio dall’altra parte del mondo, questa è in assoluto la cosa che amo fare di più. Circolo polare o deserto del Sahara, campagna umbra o fiordi norvegesi, Dolomiti o Rocky Mountains, Cape Town o Perth, non esiste un luogo che non mi piacerebbe conoscere.
Leggere – di tutto, di più. Se ci sono parole scritte, si può star sicuri che i miei occhi le leggeranno, divorandole, assaporandole, gustandole, come il più raffinato dei cibi. Cibo per la mia mente, ecco. Sia che si tratti dell’ultimo legal thriller di Grisham, di un quotidiano, di Vanity Fair, di un saggio sul mondo dell’infanzia o di un romanzo storico. All’elenco telefonico non ci sono ancora arrivata però.
Stare con mia figlia – leggerle fiabe ad alta voce, portarla al parco, giocare a battaglia navale, asciugarle i capelli col phon, fare a gara a chi arriva prima al portone, abbracciarla all’uscita da scuola, coccolarsi nel lettone, chiacchierare sotto voce e… potrei continuare all’infinito. Tutto ciò che faccio con lei mi dona una gioia immensa. Semplicemente.
Cucinare – anche se i momenti in cui ho il tempo per farlo bene sperimentando nuove ricette o nuovi sapori sono sempre troppo pochi, le volte in cui mi godo un pomeriggio ai fornelli con grembiule e sottofondo jazz sono davvero momenti speciali, che amo e che mi donano tanta serenità.
Camminare in montagna – preferibilmente da sola, senza che le chiacchiere di qualcuno mi distolgano dalla magia del paesaggio, dai silenzi, dalla pace che mi circonda. In quei momenti riesco davvero a veder volare il mio cuore.
Scrivere – una passione che per troppo tempo avevo accantonato e che adesso ho riscoperto con l’apertura del pollaio. Un piacere al quale non saprei più rinunciare. La gioia incredibile di vedere le mie emozioni trasformate in parole.
Stavolta non faccio inviti specifici, ma invito semplicemente tutti quelli che abbiano voglia di partecipare. Le regole, le sappiamo già.
martedì 22 aprile 2008
Una spa casalinga
Ben lungi dall’idea di formare una società per azioni all’interno delle mura domestiche, quella che ho creato ieri sera a mio solo uso e consumo, approfittando di una serata fuori casa del Galletto e della stanchezza della picci che l’ha fatta crollare tra le braccia di Morfeo un po’ prima del solito, è stata l’altra tipologia di spa, quella che ti rimette in sesto e non a caso denominata centro benessere. Non amo molto andare a farmi massaggiare e trastullare nelle spa tradizionali, ma dato che ieri sera ho sentito il bisogno di rinfrancarmi un po’ lo spirito e le membra, ho deciso che quell’oretta che mi separava dall’abituale svenimento sul divano, anziché dedicarlo a togliere gli indumenti ormai asciutti dallo stendi biancheria e di aprire l’asse da stiro per metterli subito in piega, l’avrei dedicata a me stessa. Così son restata sotto il getto caldo della doccia ben più del dovuto, mentre respiravo il dolce profumo del bagnoschiuma alla vaniglia che si mescolava alle note agrumate dello shampoo e pensavo che in fondo si trattava sicuramente di aromaterapia. Ho proceduto con un energico scrub che ha messo in naftalina tutte le cellule morte nei mesi invernali e mi ha reso l’epidermide liscia come seta e rossa come un gambero, pensando che non c’era poi molta differenza con un massaggio energizzante da settanta eurini. Mi sono asciugata lentamente la mia chioma leonina con il diffusore e il buonumore che mi invadeva deve aver contagiato anche i capelli che per una volta son venuti ricci, morbidi e pure un tantinello sexy, senza quell’odioso aspetto da ho infilato le dita nel 220, ed ho pensato che Aldo Coppola mi fa sicuramente un baffo. Ho passato al setaccio mani e piedi, tagliando, limando, laccando e nell’attesa che lo smalto si asciugasse ho pensato che tutto sommato non è stato difficile riuscire a trovare un po’ di tempo anche per me. Come ha detto qualcuno, yes we can, sì se po’ fa’. Questa beauty farm casalinga devo proprio riuscire a farla diventare un’abitudine.
giovedì 17 aprile 2008
Good bye Santa Claus
Chi l'avrebbe mai detto. Un giorno di Aprile, col sole che fa lo schizzinoso e si nasconde testardo dietro una coltre di nuvole, con l'aria un po' fredda e un po' no, con le gite scolastiche che hanno preso d’assedio la città. Un giorno così, un giorno da cresima, da sagra della frittella, da caccia alle uova nascoste in giardino da quel burlone del coniglio pasquale, che Pasqua è ormai un'abitudine in Aprile. Natale, quello, invece no. Ma è proprio di Natale invece che si è trattato, mentre toglievo le stoviglie dalla lavapiatti pensando ai germogli di basilico che finalmente si son decisi a fare capolino e all'acqua minerale che sta per terminare e che sarà bene scriverlo subito sul post-it prima che mi ritrovi a bere quella del sindaco. Insomma, in un momento che proprio non te l'aspetti, così, di botto, interrogata sul Natale, come quando il professore entrava in classe e con quel mezzo sorrisino tra il crudele e il divertito annunciava l'interrogazione a sorpresa tra lo sgomento generale. E in effetti, quando la pulcina mi ha detto di dirle la verità, perché sono grande mamma, ti prego non dirmi bugie, è vero che Babbo Natale non esiste e che sono il babbo e la mamma a mettere i regali sotto l'albero, mi sono sentita spiazzata e sgomenta, assolutamente impreparata. Mi metta pure l'insufficienza prof che oggi non son pronta. Perché quando in casa sbrilluccica un abete infiocchettato e il mio stereo passa da Rudolph a Last Christmas in una sequenza pressoché infinita, una domanda del genere dalla tua picci che va per i nove te la puoi anche aspettare, ma quando si parla di ponte del 25 Aprile e di azalee in fiore è ben difficile rimpolpettare così sui due piedi un qualche tipo di risposta. E mentre mi stava affiorando alle labbra il solito ma no, che dici, certo che esiste, è stata la determinazione nel suo sguardo che mi ha fatta desistere, una luce nuova che le brillava negli occhi e che declamava a gran voce la voglia di sapere. Lo sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, ma mi confortava il fatto che l’avere in classe una testimone oculare recatasi in Lapponia a vedere di persona il mitico vecchietto vestito di rosso, l’avrebbe resa scettica di fronte ai pettegolezzi che prima o poi le sarebbero giunti alle orecchie, la Giulia lo ha visto mamma, gli ha perfino dato la sua letterina, io questi qua che dicono che non esiste proprio non li capisco sai. Non avevo fatto i conti con la nuova arrivata, una bimba sale e pepe che arriva da un’altra città e che tanto per far capire che lei ne sa di più ha proclamato con assoluta certezza che il vecchietto non esiste, anche perché non ce la farebbe mai a fare il giro del mondo in poche ore, con una slitta poi mica lo Shuttle, e che i genitori sanno il fatto loro. Che sì, quello visto di persona dalla Giulia in Lapponia è un Babbo Natale ma, come dire, è quello andato in pensione. Per la serie Rovaniemi trasformata in un ospizio in cinque secondi. Così, la picci ha saputo che è vero, quelli che in punta di piedi depositano pacchi e scatole sotto l’albero la notte di Natale siamo io e il Galletto. Che lo facciamo con tutto il nostro amore. Mi ha guardata strana, ha sospirato, mi ha abbracciata, mamma non è poi così bello diventare grandi sai. Lo so, credimi. Ma nel tuo cuore potrai restare piccola quanto vorrai. E se lo vorrai i tuoi occhi potranno vedere renne volanti in un cielo stellato anche a ottant’anni. L’importante è crederci. Almeno un po’.
martedì 15 aprile 2008
venerdì 11 aprile 2008
Dondolando
Il treno corre e dondola, ed io con lui, anche se son seduta a gambe accavallate e quel che corre son solo i miei pensieri. Anche lo sguardo corre, fuori da finestrino, dal quale passano velocissimi spezzoni di piatta campagna padana, casolari, filari di alberi e un cielo grigio che promette ancora tanta pioggia, come se quella presa a Milano non potesse bastare. La mia testa dondola a ritmo col treno e se la stanchezza di una trasferta di lavoro mi fa socchiudere gli occhi, la mente corre come il treno sui binari e si posa veloce su frammenti di idee e sprazzi di pensieri, così come vengono, alla rinfusa, come quando butto le cose nella mia borsa da Mary Poppins che contiene un po’ di tutto in un’allegra mescolanza. Penso alla mia collega seduta poco più avanti, ché già è stato un miracolo essere nello stesso scompartimento dopo aver cambiato la prenotazione dal taxi in corsa verso la stazione che non si poteva mica pretendere di avere anche assegnati due posti accanto, e ripenso a quando al mio ingresso in questa azienda lei fosse al mio pari o forse addirittura un poco sotto e come adesso lei sia invece una delle mie responsabili, ma del resto io son quella part-time e lei è quella full-time che da quando è diventata mamma viaggia ancora più di prima, e questo, sissignori, ha il suo bel peso nel mondo del lavoro, son mica bruscolini. Il treno dondola un po’ di più e al ragazzo seduto accanto a me con cuffiettine i-pod cade rovinosamente un bicchiere pieno di coca sui pantaloni, mancandomi di un soffio, mentre qualche cubetto di ghiaccio rotola sul tavolinetto, vedi però che questa giornata qualcosa di buono l’ha pure portato, come avrei fatto a star seduta con i pantaloni bagnati fino a casa che siamo ancora a Piacenza. Il cielo grigio ingombro di nuvoloni scorre monotono dietro ai vetri e penso che domenica bisogna anche andare a votare ed è la prima volta in venticinque anni di elezioni che ancora non sono ben sicura per chi votare, caspita non avrei mai pensato di far parte della schiera dei cosiddetti indecisi io che quando lo sentivo dire pensavo che se uno si trovava a due giorni dal voto e ancora non sapeva a chi darlo fosse un perfetto imbecille. Beh, tutto sommato probabilmente lo sono. Il tizio seduto davanti a me è immerso nella lettura di un romanzo e ogni tanto allunga le gambe e sbatte i piedi nei miei ma non credo si tratti di uno che mi sta facendo piedino, è troppo assorto o forse solo troppo maleducato. Penso alla pizza congelata che mi aspetta a casa per una cena frettolosa e tarda, ma il Galletto ha anche troppe cose da pensare in questi giorni che assegnargli anche la preparazione di una cena sarebbe stato eccessivo visto che lui e la picci cenavano fuori casa. Il dondolio continua imperterrito e mentre compaiono le prime gallerie appenniniche ecco che il mio sguardo comincia a vacillare e a non mettere bene a fuoco la ex-signora Sarkozy novella signora Attias sulla copertina del mio Vanity Fair. Socchiudo gli occhi e ben presto mi appisolo. Un dondolio più marcato mi fa riaprire gli occhi e intravedo la vetta di Monte Morello stagliarsi nel cielo quasi buio. E’ una vista familiare, sono quasi arrivata. Le nuvole si stralciano e fanno intravedere degli sprazzi di sereno, chissà, forse sarà un bel week-end.
martedì 8 aprile 2008
Onora il padre
Non abbiamo litigato tante volte noi due e, pensa un po’, mi viene da dire purtroppo. Già, perché in effetti ti ho sempre sentito un po’ lontano babbo, vuoi per il tuo carattere così cordiale con tutti ma sempre troppo superficiale con me, vuoi per gli eventi che ti hanno allontanato da me in quella fase così cruciale della vita che sta ai confini tra infanzia e adolescenza che dopo è stato impossibile rimediare. Del resto è difficile per una bambina non credere alle parole di sua madre che, malata gravemente, non sa quel che dice ma che è sempre tua madre e, qualsiasi cosa dicano gli altri, a quell’età una mamma è un qualcosa di molto vicino ad un oracolo. Così, rimpiango i litigi mai avvenuti tra te e me, le punizioni che mi avrebbero fatta rifugiare in camera mia sbattendo la porta, le ramanzine severe che mi avrebbero fatta piangere lacrime amare. Tutto ciò non è avvenuto, ed è stato forse lì che ci siamo allontanati ancora di più. Non era facile per te, lo so. Adesso che anche io sono passata dall’altra parte della barricata, capisco come sia stato difficile per te vivere un rapporto infelice e drammatico, una separazione, una riconciliazione e, sopra ad ogni cosa e dentro ad ogni cosa, la malattia della mamma che ha contaminato la mia e la tua vita e che ci ha strappato la serenità. Io c’ero però, sai babbo, ed avevo bisogno di te. Avrei preferito uno schiaffo alle diecimila lire che mi davi per farmi felice, perché avrebbe significato che mi pensavi, che ti preoccupavi per me, che mi volevi bene. Forse per te quelle banconote avevano lo stesso significato ma per me non era così, anche se me ne rendo conto solo adesso. Avrei voluto sentirmi chiedere come stai o sei felice, come del resto vorrei sentirmelo chiedere ora. Sì babbo, sono passati tanti anni ma il vuoto da colmare è ancora lì e ormai non credo che possa più essere riempito. Domenica abbiamo litigato, che strano, ma ero io quella che faceva la severa ramanzina e s’imbatteva nella tua superficialità e il tuo egoismo che, anche se fa male dirlo, sono ancora lì immutati dentro di te. Mi sono sentiva un verme a sbraitare di fronte ad un ottantenne e ad un’inferma in sedia a rotelle ma ne ho viste passare talmente tante che non sono riuscita ad arginare il fiume in piena di rabbia e di incredulità che mi ha invasa. Perdonami babbo. Oppure, sarebbe meglio dire perdoniamoci.
venerdì 4 aprile 2008
La scala
Sfondiamo il solaio e facciamo una scala. Questo è quello che abbiamo detto quando abbiamo deciso di ingrandire il nostro pollaio. Facile a dirsi ma a farsi mica tanto. Cioè, per quanto riguarda il solaio, è stato un gioco da ragazzi, i muratori si sono divertiti a suon di martello pneumatico dandoci giù di brutto come se stessero trivellando un pozzo petrolifero e, hoplà, ecco il solaio aperto come un buco nel groviera. Il fatto che siano comparse delle crepe nel soffitto, che siano cascati alcuni intonaci, che sia crollato un pezzo di muro nella cantina di un vicino sono solo dettagli, quisquilie insomma. L’architetto serafico ci informa che al giorno d’oggi questo tipo d’inconvenienti è all’ordine del giorno nelle ristrutturazioni, che ci volete fare, l’eccezione è diventata la regola. Dato che saltargli alla gola non sarebbe da persone educate optiamo per una camomilla cercando di soprassedere e non pensare al nostro budget nel quale si stanno aprendo delle falle che nemmeno il Titanic. Così ci dedichiamo alla scala e dopo un po’ di ricerche ci rendiamo conto che star dietro alla cialtroneria dei muratori sarebbe stato senz’altro più rilassante e divertente. Io che avevo sempre abitato in case su di un unico livello non avevo la più pallida idea che una scala interna fosse praticamente considerata un bene di lusso e che pertanto avesse anche un costo altrettanto lussuoso. Ormai il buco è stato fatto e bisognerà pur trovare un modo di raggiungere il piano di sopra, ma ogni preventivo che arriva è più alto del precedente, tanto che sto seriamente valutando l’opzione liana in stile io Tarzan tu Jane oppure una bella pertica da caserma dei pompieri che all’occorrenza potrebbe trasformarsi in allegro palo della cuccagna per le festicciole della pulcina o che magari potrei decidermi ad usare per una torrida coreografia lap-dance in onore del Galletto, il quale non aspetterebbe un attimo a chiamare la neuro. No, ho proprio paura che ci voglia una scala. Ma di questo passo mi ci vorrà anche un superenalotto, un terno secco, un poker. Anzi, come ho fatto a non pensarci prima, una scala reale.
mercoledì 2 aprile 2008
Mariam e Laila
Mariam aveva cinque anni la prima volta che sentì la parola harami. Con queste parole si apre uno dei libri più belli che io abbia mai letto. Harami in afgano significa bastarda, una figlia nata da una relazione illegittima, un segno del destino che resterà per sempre impresso sulla pelle di Mariam, come un marchio a fuoco, e che ne condizionerà la vita e le speranze. Laila è un bambina piccola quando Mariam è già donna per gli standard afgani, proviene da una famiglia diversa e si aspetta un futuro diverso, ma sarà nuovamente il destino a far sì che le vite di queste due donne, apparentemente così diverse, si intreccino sullo sfondo dei terribili conflitti che si sono svolti in Afghanistan dagli anni Settanta ad oggi. Due donne forti e meravigliose, due anime incredibilmente ricche di amore e solidarietà, nonostante gli orrori della guerra, nonostante la crudeltà che le circonda. Ho amato molto queste due figure femminili così belle, che mi hanno fatta commuovere, indignare e, soprattutto, pensare. Quanto è difficile essere donna a questo mondo, ad ogni latitudine e in ogni ambiente, ma se anche nascere uomo sarebbe indubbiamente più facile, sono così orgogliosa di essere nata donna. E l'aver letto delle pagine così belle sulle donne scritte dalle mani di un uomo mi ha resa veramente felice.
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