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Lo sapevo che sarebbe stato duro, difficile, ma questo non serve a farmi stare meno male. Di un male strano, sconosciuto e nuovo, tagliente come un rasoio. Ore ad aprire cassetti e sportelli, spalancare finestre, tirare fuori roba, abiti, documenti, cianfrusaglie, occhiali rotti, con quell’odore di naftalina prepotente nel naso e la vista che si annebbia spesso, non sempre a causa della polvere. Le mani toccano tutto, veloci, rapide, analizzano e decidono all’istante, questo sì, questo no, e via in una scatola o nel sacco dell’immondizia, ma solo una parte della mia mente è lì a svolgere questo doloroso censimento. L’altro pezzo vaga per le stanze, rivede scene, riascolta la mia vocina di bambina, gli abbracci stritolanti che facevo a mia madre, i suoi pianti, le ore infinite e silenziose della mia adolescenza quando pregavo che qualcuno venisse a buttare giù a calci quella porta e mi portasse via, triste principessa solitaria rinchiusa nella torre ad aspettare un drago sputafuoco. Ogni cosa che mi passa tra le mani è un ricordo, una voce, un profumo, un momento che credevo di aver dimenticato e invece no, è sempre lì, solo un po’ impolverato. Continuo a muovermi da una stanza all’altra, efficiente, cercando di non farmi travolgere, fuggendo dalle mie emozioni, frugando tra le cose di una vita intera e sentendomi quasi inopportuna, ladra, come stessi compiendo un sacrilegio. La macchina da scrivere arancione dove mi esercitavo ad occhi chiusi la sera prima del compito in classe di dattilografia, la mia treccia bionda tagliata a cinque anni e ancora conservata dentro ad una scatolina, i miei dentini da latte, i ferri con cui mia madre preparava il mio corredino, bigliettini di auguri, vecchie sciarpe mai usate, i
gialli dei ragazzi, medicine scadute e un servito da tè ancora imballato dal giorno del matrimonio, chissà se dei miei genitori o dei miei nonni, perché il servito buono era spesso troppo buono per decidersi a usarlo e finiva che non lo si usava mai. Tutto, tutto, tutto. Vorrei poter portare con me tutto, anche quella vecchia borsa dell’acqua calda di gomma rossa scura che sbuca improvvisamente dal fondo dell’armadio, consunta e imporrata, che mi riporta a quegli inverni farciti di influenze e mal di pancia, o il bollitore del latte ammaccato e scurito che conosco così bene. La scelta continua e mentre le mani impilano veloci dei piatti in un cartone so che vorrei essere in qualsiasi altro luogo ma non qui, a dover fare questo. Dannazione quanto è difficile, non sono pronta. Non si può essere pronti, non sarei potuta esserlo mai.